Verso quale Italia?
È certamente appropriato concentrare il dibattito sullo Stato piuttosto che sul concetto molto più nebuloso di nazione, dato che, come giustamente rileva Silvio Gambino, Stato e nazione non sono sinonimi. Vale la pena rilevarlo poiché, nei recenti dibattiti in Italia sull’8 settembre e la “morte della patria”, quella distinzione è stata o ignorata o confusa. È spesso presa come fatto acquisito, per esempio, l’esistenza di una stretta correlazione tra un forte senso d’identità nazionale e unità, da un lato, e l’evoluzione di efficaci moderne democrazie dall’altro. Questa confusione non è nuova in quanto l’identificazione di nazione e Stato è rintracciabile nella Rivoluzione francese, ma essa è stata sottoposta a una critica sempre più serrata da parte degli storici e dei politologi. Le conclusioni alle quali giunse il gruppo di ricerca guidato dal politologo e storico spagnolo Juan Linz – in collaborazione con Alfred Stepan e Yogendra Yadav – sono particolarmente rilevanti da questo punto di vista. Essi hanno dimostrato, per esempio, che quello cui ci si riferisce spesso come assioma – la “nazione-Stato” – è storicamente una rarità. Infatti, dei 195 Stati oggi esistenti nel mondo – 192 riconosciti dall’Onu – pochissimi possono essere identi|cati come “nazioni-Stati”. Molto più comune è lo “Stato-nazione” – una distinzione difficile da rendere in italiano, dove “Stato-nazione” e “nazione-Stato” sono usati in modo intercambiabile. Ma la distinzione è reale e l’elenco di “Stati-nazione” – Svizzera, Canada, Belgio, Spagna e India – è significativo e potrebbe benissimo essere allungato: date le circostanze delle loro origini ci si potrebbe chiedere se anche il Regno Unito, la Germania e l’Italia non dovrebbero essere considerati in questa categoria?
Non si tratta soltanto di un gioco di termini, perché i risultati delle ricerche di Linz e il suo gruppo mettono in discussione uno degli assunti più radicati attorno al quale fu dibattuta la questione “quale Italia” nel corso degli ultimi due decenni. La loro ricerca dimostra, per esempio, che il livello di soddisfazione e identificazione con lo Stato è in modo consistente più alto negli Stati in cui la nazione è debole o non esistente (India, Canada, Svizzera, Belgio e, fino a poco tempo addietro, la Spagna) dove i cittadini non hanno difficoltà a vivere con identità diverse – un’esperienza diffusa non a caso tra molti emigranti italiani descritti da Vittorio Cappelli, che condividono un senso comune di patria senza identificarsi esclusivamente con una sola nazione. Non meno importante per i dibattiti italiani sono le conclusioni cui approdano questi studiosi: ciò che determina criticamente se una democrazia funzioni bene o male ha poco a che fare con la nazione e tutto a che fare con lo Stato. Ciò ci riporta alla questione dello Stato italiano e delle sue anomalie, una questione che non risolve il problema, ma semplicemente ne solleva altri.
In primo luogo, lo Stato è notoriamente difficile da definire – dove finisce lo Stato e inizia la società civile? E quando si tratta di spiegare le caratteristiche specifiche di qualsiasi Stato, i politologi hanno la tendenza sconcertante a sottrarsi alla questione e invocare delle astoriche determinanti culturali e continuità del tipo di “tradizioni civiche” di Robert D. Putnam. Tali argomenti sollevano ma non rispondono alle questioni storiche cruciali. Se sosteniamo, per esempio, che lo Stato italiano che emerse dal Risorgimento fu difettoso, questo da solo non può spiegare perché esso è rimasto difettoso da allora: a meno che non ricadiamo sui modelli di determinismo e “dipendenza dal percorso” che legano lo sviluppo istituzionale agli immutabili valori culturali nonché alla storia.
Prima però di imbarcarci in tale esercizio, dobbiamo capire in che senso lo Stato italiano che emerse dal Risorgimento fu unico. Porre tale semplice domanda significa sollevare più ampie questioni su come fare comparazioni al tempo in cui gli assunti fiduciosi e i modelli che una volta stavano alla base di varie “teorie della modernizzazione” sono ormai crollati. Anche se, in pratica, il termine “transnazionale” spesso denota poco più che storia comparata scritta in un linguaggio nuovo, l’originale forza e valore del concetto deriva dal tentativo di liberare comparazioni storiche da quel tipo di valori teleologici e normativi di cui “la teoria della modernizzazione” e suoi successori sono esempi.
Questi vecchi modi di pensare in maniera comparativa rimangono profondamente radicati in discorsi tanto nazionali quanto internazionali sull’”eccezionalismo” italiano e continuano a essere accolti con grande clamore quando sostenuti da osservatori stranieri in ogni presumibilmente nuova “storia dell’Italia moderna”. Le comparazioni tra lo Stato “francese”, lo Stato “britannico”, lo Stato “nord-americano” e quello “italiano”, inevitabilmente ricadono su stereotipi desueti e generalizzazioni discutibili. Ogni confronto, però, deve tenere conto dei contesti storici del tempo e del luogo, così come ogni analisi dello Stato italiano del XIX secolo deve essere impostata in un contesto non di Stati ideal-tipici, ma mediante comparazioni; e non solo con il Belgio o il Regno Unito ma anche con la Francia tutt’altro che liberale della Terza Repubblica, la Germania di Bismark o la Spagna.
Quanto eccezionale era l’Italia in questa compagnia? Possiamo iniziare dall’esempio della diversità regionale. Maria Luisa Ronconi giustamente sottolinea il fatto che l’Italia è per eccellenza un Paese di straordinarie diversità regionali e locali. È questo un fatto, però, tanto unico? È già più di quarant’anni fa che Eugen Weber ha attirato la nostra attenzione sul lento e doloroso processo di Nation building in Francia, dove fino alla fine del … secolo la maggioranza di uomini e donne viveva in mondi solo lontanamente connessi a qualsiasi concetto significativo di Francia o di “nazione” francese. Sia Tocqueville che, più recentemente, Sabino Cassese hanno sottolineato con ammirazione il forte senso di governo locale negli USA e nel Regno Unito – eppure, quando si tratta dell’Italia, queste forme di “localismo” sono viste solo con accezione negativa.
Se un tema dominante nello sviluppo dell’Italia moderna è stato l’emergenza di uno Stato con forti ambizioni centraliste, ciò non è certamente unico. Ci basta guardare appena oltre frontiera per trovare Eugen Weber che descrive l’emergere dello Stato francese ottocentesco come un processo di colonizzazione interna; e lo stesso varrebbe per il Regno Unito. Colonizzazione interna ed emergenza dello Stato burocratico ottocentesco erano processi concomitanti, così come marcati squilibri regionali sono stati l’esperienza di praticamente ogni Stato dell’Europa orientale sul difficile cammino verso il XXI secolo.
In una prospettiva transnazionale, comunque, la questione delle regioni e delle identità regionali in Italia solleva diverse altre domande. Data la forza dell’identità regionale e locale è facile dimenticare che, dall’unificazione fino al periodo molto recente, l’Italia era stata caratterizzata dall’assenza di movimenti separatisti regionali significativi. Naturalmente, ci sono state alcune parziali eccezioni – la Sicilia, almeno quella occidentale – ma nulla di comparabile alla questione basca o catalana in Spagna, alla “Questione irlandese” in Gran Bretagna, o le tensioni fiammingo-valloni in Belgio. In Italia, al contrario, le grandi questioni regionali dopo l’uni|ficazione riguardavano l’inclusione piuttosto che l’esclusione, come il recupero dell’irredenta che nel 1915 avrebbe definito gli obiettivi di guerra italiani.
A prima vista, l’assenza di forti movimenti separatisti regionali dopo l’unificazione sembrerebbe contraddire l’alto sviluppo della consapevolezza di identità regionale e locale. Nel suo saggio, Maria Luisa Ronconi sostiene che il nuovo Stato pose poca attenzione alle preesistenti identità regionali e locali e alle realtà geografiche. Giuseppe Galasso potrebbe avere ragione nel rintracciare questo processo fin dall’Impero romano; tuttavia, sospetto che le sue origini siano molto più recenti e risalgano, con più evidenza, agli esperimenti centralizzanti del riformismo assolutistico del tardo ’700.
In ogni caso, la definizione di regione è stata soggetto di accesi dibattiti durante le rivoluzioni liberali del 1820 a Napoli, dove molti delegati provinciali al Parlamento nazionale denunciarono quella che credevano fosse stata la continuazione, da parte del governo Murat, di un’organizzazione imperialista delle province meridionali. Come Galasso, questi uomini ne individuavano le origini nella Roma imperiale, ma l’oggetto delle loro denunce era soprattutto la recente rinascita di modelli imperiali romani. Sostenevano che la pratica di attribuire alle province nomi come Principato Citra, Principato Ultra, Calabria Ultra, Calabria Citeriore e così via, indicasse un progetto coloniale che identificava le province in termini di distanza dalla capitale. Invece, chiedevano il ritorno ai nomi preromani delle province: dei sanniti, Daunia ecc6.
Ma come dovevano essere definite? Nessuno lo sapeva, e ogni tentativo fatto in tal senso dava origine a pericolosi conflitti circa i confini e soprattutto circa le gerarchie comunali e amministrative. Questi malcontenti regionali e locali non riuscirono a dar vita a identità chiaramente definite, ma si sarebbero rivelati (insieme al separatismo siculo) una forza potente nelle rivoluzioni del 1848-1849 e poi ancora nel crollo del Regno delle Due Sicilie nel 1860.
I risentimenti regionali provocati dagli istinti accentratori dei governanti italiani dal ’700 non erano un fenomeno limitato solamente al sud; anzi, essi giocarono un ruolo essenziale nell’indebolire ognuno degli Stati italiani preunitari. Quindi, i risentimenti e le tensioni regionali non furono le conseguenze dell’unificazione, ma parti del patrimonio ereditato dallo Stato unitario, che si rivelò sottomolti aspetti – va detto – più efficace nel gestire le tensioni regionali rispetto ai suoi predecessori.
Ciò potrebbe sembrare sorprendente, soprattutto quando si considera l’esempio frequentemente citato, e ancora aspramente controverso, dell’unificazione politica del nord e del sud nel 1860. Non fu questo un chiaro esempio di colonizzazione interna? Questa prospettiva appare più di una volta nei saggi di questa sezione e merita un’attenzione più puntuale. Chiaramente c’è del vero in questa affermazione, ma dovremmo ricordare che gli osservatori più critici dei rapporti nord-sud dopo l’unificazione compresero la debolezza della tesi troppo semplificata secondo la quale l’unificazione fu la conseguenza di una “conquista regia”. Senza il sostegno delle élites meridionali, l’evoluzione dello Stato italiano sarebbe stata molto diversa, e Maria Luisa Ronconi ha certamente ragione nel citare Gramsci in questo contesto.
Tuttavia, se Gramsci definiva i rapporti tra nord e sud in termini di colonizzazione interna, egli, come Salvemini, metteva altresì in rilievo il ruolo fondamentale che in quel processo giocarono le élites, le classi professionali e la borghesia meridionale, haute, moyenne e petite. L’unificazione tra nord e sud offre un esempio italiano del modello di colonizzazione interna che Weber identificò per la Francia del XIX secolo? Ci sono delle somiglianze, ma anche differenze cruciali, poiché nel suo funzionamento e nella sua struttura concreta, lo Stato italiano prestò forse non troppo poca, ma troppa attenzione agli interessi regionali che inevitabilmente riflettevano gli interessi delle frange più potenti delle élites locali. Anche in questo caso, l’analisi di costi e benefici non è univoca. Il prezzo pagato per i complessi meccanismi di scambio e mediazione politica che seguirono l’unificazione fu alto,ma l’unità politica italiana si dimostrò inaspettatamente, e potremmo anche dire straordinariamente, resiliente. Anche nelle sue ore più buie, l’integrità dello Stato creato tra il 1860 e il 1870 non è stata mai seriamente in pericolo; questo avrebbe sorpreso non poco i profeti dell’unità italiana: nella realtà, l’unificazione si è mostrata molto più solida che la ben più fragile indipendenza conquistata nello stesso periodo.
In ogni caso, nessuna discussione delle origini storiche dei tratti distintivi dello Stato postunitario può essere limitata alla sola Italia; al contrario, deve tener conto del contesto più ampio in cui l’unificazione italiana prese forma. È questa la ragione per cui gli storici hanno sempre voluto spiegare perché i processi di unificazione politica in Italia e in Germania seguirono percorsi così diversi. Come ebbe più tardi a dire il
Cancelliere tedesco a Crispi, nell’unificare la Germania, egli aveva potuto contare sul pieno sostegno della monarchia, della Chiesa e dell’esercito, mentre Cavour non aveva “nulla“. Tuttavia, per il suo nuovo Reich la Germania adottò una struttura federale che lasciò al loro posto molti dei governanti e delle autonomie statali esistenti. In Italia, di fronte al crollo interno del Granducato di Toscana e del Regno borbonico al sud, uno Stato molto più debole della Prussia cercò di imporre l’unificazione politica attraverso una strategia di annessioni e plebisciti. Come è da tempo risaputo, lo Stato centralizzato che ne emerse fu, però, più apparente che reale, e dipese fin dall’inizio da scambi negoziati con le élites locali che risultarono in compromessi che plasmarono, a loro volta, uno Stato contemporaneamente forte e debole – ciò che Raffaele Romanelli defini` il “commando impossibile”.
In molti hanno visto in questo la radice di quelle forme di “trasformismo” che limitarono le alternanze politiche; ma ciò fu davvero dovuto alla struttura dello Stato o fu piuttosto la conseguenza dei modi particolari in cui le élites politiche dell’Italia postunitaria concepivano il liberalismo e i suoi obiettivi politici? In ogni caso, non si devono esagerare i lati negativi del nuovo Stato; con tutte le critiche che gli possono essere mosse, esso aveva anche una sua propria funzionalità, si sarebbe dimostrato molto più efficace dei suoi predecessori nel superare le tendenze separatistiche e regionalistiche che avevano indebolito i governanti preunitari, e finì per trasformare l’Italia, per la fine del secolo, in un’importante potenza industriale. Tutti questi successi erano fondamentali per la sopravvivenza del nuovo Stato.
I costi furono molto elevati ma non eccezionali, come ci ricorda l’emigrazione di massa dal sud. È una terribile misura della povertà del sud rurale nei decenni precedenti la Grande guerra, ma nello stesso tempo fa parte di un processo comune a tutti gli Stati europei occidentali nel corso del XIX secolo. Similmente, le disparità economiche tra nord e sud riflettevano trasferimenti e squilibri regionali conosciuti da tutti gli Stati in via di industrializzazione nel XIX secolo. Infine, la lunga persistenza della “Questione meridionale” italiana non deve nascondere il fatto che, nel tempo, quel rapporto sia cambiato sotto molti aspetti. I calcoli effettuati da Vittorio Daniele e Paolo Malanima, avvalorati da altri studi, confermano in maniera definitiva che il divario economico ebbe, nel corso degli anni, un’evoluzione tutt’altro che lineare. Partendo da qualcosa vicino alla parità al tempo dell’unificazione, il divario è cresciuto rapidamente nei tre decenni successivi, ma poi ha iniziato a ridimensionarsi alla vigilia della Grande guerra (principalmente, sembra, come conseguenza dell’emigrazione). Quel progresso fu sostenuto durante e dopo la Prima guerra mondiale, per essere poi completamente distrutto dagli effetti combinati della depressione, delle politiche fasciste dell’autarchia e del divieto di emigrazione.
Dopo la Seconda guerra mondiale, la nuova ondata di emigrazione di massa degli anni ’50, combinata con gli effetti positivi della prima fase del progetto di sviluppo meridionale, innescò una nuova fase di convergenza che, ancora una volta, si rivelò impossibile da sostenere con conseguenze che tutt’oggi drammaticamente ci confrontiamo.
La lunga persistenza – “ricorsi” è forse la descrizione più accurata del caso italiano – della disparità tra nord e sud, non è, comunque, un fenomeno unico, e dev’essere considerata nel contesto di altri Stati avanzati dell’Europa occidentale; non ultimo il Regno Unito, dove le differenze nel tenore di vita, reddito, servizi sociali e occupazione tra nord e sud sono in effetti più ampie che in Italia. Lo notiamo non per relativizzare i problemi posti dal “ritardo” del Meridione italiano e il malcontento che esso crea, ma semplicemente per ribadire che dobbiamo cercare contesti più transnazionali, meno statici, più flessibili e più sensibili alla storia per l’analisi comparata e la comprensione dei fenomeni.
I dati più recenti sul rapporto nord-sud indicano anche che il periodo più critico nel determinare la situazione che viviamo oggi è quello più recente. Questo solleva un’altra domanda. La coincidenza del centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia distorce forse la nostra comprensione della relazione tra passato e presente imponendo un senso di immobilità e immobilismo su un secolo e mezzo di storia italiana che, nella realtà, è stata tutt’altro che statica? Dà forse luogo a una falsa prospettiva che privilegia gli elementi di continuità su quelli del cambiamento?
Gli eventi del 1860-1870 possono davvero spiegare perché le speranze di rinnovamento politico e istituzionale, ispirate dalla nuova Repubblica sorta dalla guerra, sarebbero state disilluse?
Da “Oltre l’Italia, verso l’Italia, quale Italia” di John Davis in Unità multiple. Centocinquant’anni? Unità? Italia a cura di Giovanna De Sensi e Marta Petruswicz