Tutela d’onore
Giunsero i carabinieri, in tre.
Il brigadiere osservò la scena, fece mossa a Gino di tirarsi indietro, ordinò che sgomberassero le case vicine e che tenessero a distanza i curiosi – ne comparivano, nonostante avesse appena fatto giorno. E chiamò il comando di compagnia perché inviasse gli artificieri, che giunsero a pochi minuti alle sette, volante a sirene spiegate e uno stridio di gomme. In due schizzarono fuori prima che la macchina fosse ferma del tutto e fenderono la piccola folla alteri e accigliati, senza degnarla di un’occhiata – efficienza doveva essere il loro motto. Imposero ai carabinieri di fare indietreggiare di un altro po’ la gente, e al brigadiere di retrocedere a sua volta – lui, eroico, testiò disappunto – chiesero se le abitazioni intorno fossero state evacuate, deposero in terra gli strumenti dell’arte, tagliarono in pezzetti la busta di plastica ed ebbero davanti la bomba. Il chiacchiericcio rumoroso degli spettatori degradò fino a un bisbiglio. Il silenzio infine.
Non c’era miccia, né detonatore, né sistema a orologeria.
Appena uno degli artificieri raccolse l’ordigno, partì un applauso. Quelli furono imperturbabili sotto i Ray-Ban.
Tutti riportarono gli occhi addosso all’ingegnere Parisi, a scrutarne le espressioni, a non perdersi nulla, per trasformarsi in protagonisti nel racconto, con la bomba che, di bocca in bocca, sarebbe diventata di un paio di chili a mezzogiorno, di dieci nel pomeriggio e di dimensioni tali da distruggere mezzo paese nella serata, e con il pallore dell’ingegnere che, partito dalle tinte d’una patata sbucciata, sarebbe giunto a quelle d’un defunto fresco di giornata.
Quando gli esperti si allontanarono portandosi via l’involucro, la gente si disperse, formando assembramenti lungo il Corso. Commentavano. Qualcuno avanzava ipotesi. Senza sbilanciarsi: le confidenze e le congetture più audaci solo per le orecchie amiche e collaudate.
Dalla folla in ritirata, Gino raccolse sorrisi incerti, parole di solidarietà, pacche sulle spalle, battiti della testa. Nessuno ebbe faccia di chiedergli se nutrisse sospetti, se conoscesse i motivi, se avesse subito richieste di denaro o fatto un torto a qualcuno. Non erano domande lecite con il morto ancora caldo. E comunque c’era poco da appurare: si trattava di un’estorsione. Se avessero voluto scontarsi uno sgarbo, un’offesa, la bomba l’avrebbero fatta esplodere, senza preoccuparsi d’avvertire per telefono.
Il brigadiere chiese a Gino di raggiungerlo in caserma.
A Gino parve un ordine. Lo stesso scelse di vedere prima la sua famiglia. Trovò la moglie in casa. Teneva in braccio Marco, il piccolo, di quattro anni, che avvertiva qualcosa d’inconsueto, forse il turbamento della madre. Giuseppe, di otto, stringeva protettivo tra le sue la mano del fratellino. Però lo sguardo, che vagava sugli adulti, tradiva l’apprensione. Mariella li tranquillizzava, li carezzava con le parole e con larghi sorrisi, arruffava loro i capelli.
Che Mariella aveva pianto, Gino lo capì dagli occhi, per il celeste dell’iride che si stagliava più netto sul bianco della cornea, sempre le succedeva dopo le lacrime. «Non c’è da preoccuparsi, una ragazzata. Era poco più d’un mortaretto, niente di pericoloso. Se fosse scoppiato, sarebbe stato solo rumore e un po’ di fumo» sminuì. Strizzò l’occhio a Giuseppe. E aggiunse «non avrebbe neanche scalfito la porta».
C’era con loro il vecchio zio Peppino, da cui Gino prima aveva portato i suoi. Era il fratello più giovane del padre, l’ultimo rimasto dei cinque figli del nonno: quattro maschi e una femmina mancata di tifo quando non era ancora in età da marito. Era alto, ossatura possente e lineamenti induriti dalle pieghe dell’età, il colorito sano di chi ha passato la vita in campagna, la fronte alta, i capelli lisci e grigi, e gli occhi svelti e autoritari, in essi l’impronta del carattere forte e volitivo, dell’uomo sicuro di sé, abituato a farsi ubbidire.
Appena soli, Gino raccontò a lui e a Mariella delle due telefonate ricevute allo studio, a quattro giorni una dall’altra. Gli avevano intimato di preparare cinquanta milioni. «In contanti, tutti dobbiamo campare, e la tranquillità della vostra famiglia tanto viene a costare». Aveva ribattuto che non intendeva pagare e di non disturbarlo più. «Da me non otterrete una lira. I soldi io li guadagno con il sudore della fronte. E poi cinquanta milioni non li ho e se li avessi non li darei certo a voi». Anche la seconda volta aveva risposto così e registrato la chiamata, caso mai servisse a riconoscere la voce. Non essendo state profferite vere minacce, aveva ritenuto che non c’era pericolo immediato e che poteva trattarsi di un bluff. Apposta, e per non preoccuparli, aveva tenuto per sé l’accaduto.
Lo zio lo aveva ascoltato serio e pensieroso. Fece per parlare. Fu interrotto dallo squillo del telefono. Era il brigadiere che sollecitava Gino a recarsi in
Gino scelse d’andarci in macchina. Erano sì poche centinaia di metri ma sarebbero state condite dagli sguardi dei paesani, e avrebbe potuto subire la morbosità dei più sfacciati.
In caserma, negò di aver avuto pressioni estorsive. E si sorbì la tiritera del brigadiere «… e da un ingegnere, un professionista che ha studiato al Nord, mi sarei aspettato un atteggiamento diverso, invece pure lei omertoso».
«Anche se avessi avuto minacce e ve lo dicessi, voi che risolvereste? Niente. E allora tanto vale stare zitto e non aumentare il pericolo», gli scappò per via di bocca dai pensieri.
Il brigadiere si risentì. «Non le rispondo. Ne parleremo quando sarà più calmo e più ragionevole».
Gino, irritato, fece notare al carabiniere intento a redigere il verbale che non si scriveva “ingegniere”. Soffiò aria irridente dal naso appena s’accorse che quello stava per togliere la “i” iniziale. Gli toccò un’occhiataccia del brigadiere. E forzò un sorriso pacificatore. Firmò la denuncia, farfugliò un saluto e andò via.
Non si sentiva pronto per rientrare a casa e affrontare le domande. Sempre così nei momenti di pressione, gli occorreva isolarsi per riordinare le idee e provare a capire, per trovare angolazioni da cui la situazione gli apparisse meno disastrosa, più affrontabile. Però doveva. Per minimizzare l’accaduto, per convincere i suoi che si sarebbe sistemato tutto, che s’era trattato d’una ragazzata. Ai piccoli occorreva impattare nel suo sguardo rassicurante. E a Mariella di farsi ingannare dalle parole, per poi essere lei a trasferire tranquillità ai bambini.
Aprì con il telecomando la saracinesca del garage e vi entrò la macchina. Non ce la metteva mai di giorno, preferiva posteggiarla in strada per averla a portata. Una punta di fastidio mentre considerava che si stava adattando alla situazione.
In casa c’erano i parenti, con facce luttuose. Sedevano nel salone, dove convivevano antico e moderno: un alto soffitto con il perlinato a raggiera, a realizzare i quattro spicchi della volta, cornici e fregi lavorati da artigiani d’altri tempi con un’arte impossibile ai nuovi mastri arruffoni, l’angoliera e la ribalta primo ottocento, i divani in pelle disposti davanti al caminetto, una parete da cui sbalzavano mensole con piante pendenti, eleganti tende parasole, a strisce rigide, sull’ampia vetrata all’inglese.
Troneggiava zio Peppino. Era don Peppino in paese, uno molto considerato, nonostante fosse l’unico dei fratelli a non avere gli studi – «la quinta elementare mi basta e avanza» diceva sempre – e avesse preferito lordarsi di terra con la proprietà, avuta in eredità in gran parte: quasi trenta ettari di uliveti, a compenso dei mestieri civili degli altri, rimasti padroni del palazzo e del po’ di terra bastante per la comodità dell’olio. Il palazzo l’aveva poi rilevato il padre di Gino quando i fratelli medico e notaio s’erano trasferiti a Reggio. Non se l’era goduto, mancato di cuore troppo presto, un anno prima della moglie. Assieme a lui, ch’era geometra, s’era squagliata l’impresa di costruzioni mai allargata troppo, perché Gino non aveva inteso proseguire: negli appalti la ’ndrangheta dettava le regole, e non era il caso.
Gino era contento che lo zio fosse lì. Sarebbe stato utile. Sapeva tutto di tutti in paese, per le occasioni che gli offriva il ruolo di possidente, per le chiacchiere e i pettegolezzi a cui si prestava volentieri, e da primo attore. Avrebbe circoscritto i sospetti a pochi delinquenti. E consentito di parare il colpo rivolgendosi alle persone giuste, a quelli che più li potevano frenare.
Erano intanto giunti i due geometri dello studio, alcune vicine di casa, e Peppuccio di don Michele – figlio di un cugino del padre di Gino – con l’abituale sguardo smarrito, che non posava su niente. Nessuno parlava. Erano lì per palesare l’affetto e la vicinanza. Altro non potevano.
Gino sfoggiò un sorriso rassicurante, ringraziò e scambiò battute di circostanza. Dopo, fece un cenno allo zio Peppino. E s’appartò con lui nello studiolo, lasciando alla moglie l’incombenza delle visite. Gli rivelò i dettagli, addolcendo le parole quando entrava Mariella e si fermava ad ascoltare.
«C’è l’imbarazzo della scelta» attaccò don Peppino. «E il guaio è che non sai a chi rivolgerti. Chi l’avrebbe detto che un giorno avremmo rimpianto Micuzzo Passero, buonanima? Allora, almeno non c’era confusione, nulla succedeva che lui non avesse deciso o che non sapesse. Se succedeva, era carico suo dipanare la matassa. Con noi Parisi, manco uno sbuffo si permettevano. Aveva una considerazione per tuo nonno! Pure dopo, con don Rosario, e chi ci disturbava? Riguardi e inchini. Ormai è inutile rivolgersi a lui. Questi nuovi galantuomini non guardano in faccia nessuno, non sanno cos’è il rispetto. Che può fare un vecchio messo da parte?». Lì s’interruppe pensieroso. Si animò d’un guizzo. «Anche se… Ma no, qualche anno fa forse, niente, niente» aggiunse, scartando l’idea di rivolgersi a quell’ultimo capobastone. «Intende finire i giorni nel suo letto. Non ci riescono in molti di questi tempi. Che sono giovinastri, è sicuro. Sì, giovinastri. Ma chi sono ’sti gran figghji di pputtana? Si mettono insieme tre o quattro orfani e combinano queste frittate. Valli a trovare poi!».
«Se pensano che io pago…!».
«Ah, certo, se paghi, puoi incominciare a raccoglierti i pupi, non te li levi più di dosso. Quando hanno bisogno di soldi, ti bussano qua… con una bomba. Comunque, non c’è pericolo. Non è mai morto nessuno perché non ha pagato. Non si tratta di pezzi di mala carne, altri i loro interessi, più redditizi e meno rumorosi. Questi sono sventurati da niente. Ci provano. Si tirano indietro alla prima smorfia. Sebbene… la bomba hanno saputo procurarsela, e l’hanno messa!».
«Mah… Certo che se potessi evitare queste preoccupazioni ai bambini e a Mariella…».
«È inutile fare chiacchiere» tagliò corto lo zio. «Quando si rifanno vivi, non gli dare corda, mostrati deciso a non pagare, dai a intendere che non ti fanno paura. E interrompi la telefonata. Vedrai che si sgonfiano e ti lasceranno in pace. E, comunque, non c’è altro da fare. Se paghi, non ne esci più. Trasferire non ti puoi, con il lavoro e gli interessi che hai qui! ’Sti sciancati che giocano a fare gli uomini! Al massimo bruciano qualche piede d’ulivo. Se non li pesco prima io. Ché con la lingua glieli faccio spegnere!».
S’era infervorato in un crescendo d’indignazione, ed era spuntata la rabbia. Perché sentiva l’offesa addosso a lui, il capofamiglia, il superstite della vecchia generazione, e perché il suo stesso accenno a una rappresaglia sugli ulivi gli aveva portato l’angustia che il danno sarebbe stato più suo, dato che accudiva per Gino la poca campagna lasciatagli dal padre e quella, più consistente, portata in dote da Mariella. Ne moliva pure le olive nel frantoio, di quelli tradizionali, con le grandi macine in pietra. Rifiutava cocciuto gli impianti a ciclo continuo. «Quei macchinari moderni danno un po’ di resa in più. Forse. Ma l’olio fa schifo, si guasta subito, trattato a quella temperatura. Poi, io lavoro le mie olive e basta, non m’imbratto con quelle degli altri» soleva dire, con l’orgoglio del padrone che non si degrada al mestiere per conto terzi.
Gino contava sul suo aiuto. Gli si era affidato, nonostante fosse un professionista che sapeva destreggiarsi. Viveva e lavorava da troppo in paese per non sapere come regolarsi in faccende simili. Però, l’esperienza dello zio era un’altra cosa. Aveva anche un certo credito negli ambienti ’ndranghetisti, almeno così spacciava, e si sentiva un po’ malandrino, ché, quand’era verde, e pure dopo, non s’era fatto indebolire da nessuno.
Ne parlarono a lungo. Le uniche interruzioni, quando Mariella entrava con il portatile perché Gino rispondesse alle chiamate. Era impressionante la rapidità con cui s’era sparsa la notizia, già si facevano sentire i parenti lontani.
Lo zio offriva ragionamenti. E lo tranquillizzava: «vedrai, se ti vedono duro da torcere, la smettono. In campagna non si permettono finché c’è questa carne».
Gino sorrise: capiva che lì bruciava allo zio. Ci guadagnava, speculandoci senza esagerare. A Gino stava bene così: ne approfittava meno di quanto avrebbero fatto degli estranei e loro non rischiavano di perdere gli uliveti per usucapione, era già accaduto a più d’uno sprovveduto. Poi, era sangue suo. Affidarsi allo zio era come aver accanto il padre, morto appena dopo aver visto concretizzarsi il sogno del figlio ingegnere, per lui il riscatto del titolo che tutti gli rivolgevano, e che accettava senza schermirsi, ma che gli si piantava a piombo sullo stomaco, perché gli scorticava il rimpianto per il precoce abbandono degli studi universitari.
Lo zio avanzò ipotesi e fece i primi nomi. Spiegava perché li sospettava.
Gino lo interrompeva a volte. E scartava dei giovani – per aver fatto favori alla famiglia, per la benevolenza sempre scorsa tra loro, per averli chiamati spesso a lavorare nei cantieri.
Ne rimasero pochi da sospettare. Più ne parlavano, più lo zio si convinceva. «Può essere. Sì, può essere. Cola Barruso con quella squadra di sventurati. Più facile loro che quelli della “Petrosa”. Per quanto, con il padre carcerato, senza controllo… Oppure i figli di Mico e di Vestiano Barrese. No, loro no, combinano affari più seri. Non s’immiserivano in un’estorsione. A meno che, all’insaputa dei padri… Ché se lo appuravano…!».
Gino li conosceva, senza averci confidenza. Incontrandosi per strada, mai parole oltre il saluto. S’era accorto degli sguardi da duri, degli atteggiamenti spavaldi, della camminata ondeggiante, con la ’nnacata, della parlata in gergo, delle pose da cristiani. Li si trovava a ruota davanti al bancone dei bar, a scolarsi una birra dietro l’altra, dopo aver tintinnato il muso delle bottiglie in un unico punto al centro. Bastava un colpo d’occhio per intuirne l’indole.
Gli tranciò i pensieri lo zio. «Fortuna ch’è uscito dal carcere Mico Barrese», disse.
A lui decisero di rivolgersi.
Da “Il prezzo della carne” di Mimmo Gangemi