Sconfinamento ucraino
L’ideologia del movimento di Bandera, proclamato “eroe nazionale dell’Ucraina” dal presidente filoccidentale Viktor Andrijovyč Juščenko nel gennaio 2010, tra le proteste di Mosca, degli ucraini russofoni, delle organizzazioni internazionali ebraiche, dell’opinione pubblica mondiale, rivive, oggi, nei gruppi di estrema destra ultranazionalisti, xenofobi, antisemiti sorti a Kiev e nelle regioni occidentali: l’Unione Panucraina Svoboda, Pravyj Sektor, Spilna Prava, Samooborona Majdanu e il risorto UPA. Questi “partitimilizia”, dotati di una raffinata organizzazione paramilitare e profondamente pervasi da simpatie neonaziste, hanno costituito il braccio armato delle manifestazioni di Majdàn Nezaležnosti (del tutto dissimili da quelle pacifiche della “Rivoluzione arancione” del 2004), assicurando la forza d’urto necessaria ad attuare il colpo di mano con il quale Janukovyč è stato defenestrato. Insieme con essi, un ruolo decisivo per promuovere e gestire il cambio di regime è stato giocato dall’internazionale neofascista, composta da volontari bielorussi e polacchi, affiancata da alcune associazioni, come l’International Renaissance Foundation (attiva in Ucraina dal 1990), sostenute dall’imprenditore ungherese nazionalizzato statunitense George Soros, le cui disinvolte pratiche finanziarie si legano a un feroce sentimento antirusso, e infine da alcune organizzazioni non governative sospettate di agire in stretto contatto con l’amministrazione statunitense.
Privata della sua egemonia sull’Ucraina, la Federazione Russa ha alzato la voce, digrignato i denti, mostrato imuscoli e, infine, è passata dalle parole ai fatti. Mosca ha posto in stato d’allerta il suo dispositivo militare sulla frontiera ucraina e ha inviato reparti scelti e colonne di blindati per rafforzare il contingente stanziato nella base di Sebastopoli. Il grande porto sul Mar Nero è divenuto il centro propulsivo della resistenza contro il nuovo corso di Kiev, da dove la popolazione russofona ha minacciato di arrivare alla secessione della Crimea dall’Ucraina e di attuarne il ricongiungimento con la “Grande Madre Russia”. La minaccia è divenuta realtà, l’11marzo, quando la Crimea si è autoproclamata repubblica autonoma e poi parte integrante della Federazione Russa con gli schiaccianti risultati del plebiscito del 16 marzo (97 per cento di voti favorevoli), che Mosca ha immediatamente ratificato.
Solo trincerandosi dietro una muraglia di folle ottimismo e di grande insensatezza, le cancellerie occidentali potevano d’altra parte ipotizzare una supina acquiescenza del Cremlino alle loro interessate attenzioni su Kiev, che intellettuali russi di diversissima estrazione (l’occidentalista e liberale Petr Struve, il grande glottologo e ideologo della destra eurasista Nikolaj Trubeckoj, Michail Bulgakov e Aleksandr Solženicyn) hanno considerato il “fonte battesimale della civiltà russa”, identificando l’”indipendenza ucraina” con lo “scisma della Nazione russa” e l’”ucrainofilia” con una “variante fratricida della russofobia”. A maggior ragione identico discorso deve esser fatto per la Crimea. La penisola del Mar Nero, che appartiene alla Russia dal gennaio 1792, in conformità al Trattato di Iaşi siglato dall’Impero zarista e da quello ottomano, fu graziosamente e sconsideratamente devoluta da Nikita Chruščev alla Repubblica Socialista Sovietica Ucraina contro la volonta` della maggior parte dei suoi abitanti nel febbraio 1954, in occasione del trecentesimo anniversario del Trattato di Perejaslav (1654). Accordo con il quale i cosacchi di Zaporož’e, minacciati dall’avanzata dell’integralismo cattolico di Varsavia, sancirono la scissione dei territori ucraini dall’Unione polacco-lituana e decisero di unirsi alla Russia ortodossa dello Zar Alessio I.
Con il ritorno di Sebastopoli sotto il diretto dominio di Mosca si è per ora evitato un conflitto dispiegato tra Russia e Ucraina per la Crimea (che i sovietici difesero strenuamente tra 1941 e 1942 contro le truppe dell’Asse) simile alla “guerra lampo” russo-georgiana del 2008 per la supremazia sull’Ossezia del Sud e l’Abcasia. Se il recursus ad arma interstatale non ha avuto luogo, la “primavera ucraina” del 2014 si è però trasformata in una guerra civile aperta e guerreggiata. Si è così riprodotto lo stesso scenario provocato dalle “rivoluzioni arabe” del 2010-11, meglio definibili come Washington “Soft” Revolutions, con le quali l’amministrazione Obama decise di portare a compimento il Greater Middle East Project lanciato in coincidenza con la War on Terror scatenata da George Walker Bush nel 2001.
La fisionomia politica dell’Ucraina costituisce il teatro ideale e naturale per questa nuova sale de guerre. Cosa è, infatti, l’Ucraina se non “una terra di frontiera”, priva di confini storici, nata dall’Unione di Lublino, come frattura della Rus’medievale e “lacerazione della nazionalità russa”, se non “un vuoto geopolitico, poco più di un intermezzo territoriale, la cui assenza di unità effettiva ha risucchiato le Potenze contigue in due guerre mondiali”, se non “una guerreggiata area di confine” divenuta lo scenario naturale delle bloodlands del XX secolo, se non, infine, l’esatto contrario di uno Stato nazionale nel senso classico del termine, dove neppure “la maggioranza etnica titolare ucraina costituisce una Nazione unificata, omogenea e coerente”?
In questa regione che usurpa il titolo di Nazione, più simile a un’”espressione geografica” che a una comunità di lingua, di cultura, di tradizioni e interessi economici condivisi, è ormai in atto un conflitto intestino, aggravato da alcuni fattori assolutamente peculiari. L’”irriducibile polarizzazione culturale tra civiltà occidentale e ortodossa”, su cui attirò l’attenzione già Samuel Huntington nel 1996. La forte frammentazione etnica di un Paese che comprende russi, bielorussi, moldavi, bulgari, romeni, polacchi, ma anche armeni, georgiani, azerbaigiani, greci, tatari. La divisione religiosa che comporta l’esistenza di minoranze ebraiche e musulmane, greco-cattolici, tre Chiese ortodosse, di cui due “nazionali” e una legata al Patriarcato di Mosca. Il fatto che l’area russofona dell’Ucraina è territorialmente separata dall’area di “lingua ucraina” da una vasta zona centrale mista dove le ostilità sono ineluttabilmente portate ad acuirsi.
Questo conflitto è destinato a produrre, a parere di uno dei maggiori analisti statunitensi dell’Europa orientale (Jack Foust Matlock), non una divisione netta tra regioni russofile e russofobe (come accadde per la Cecoslovacchia, nel gennaio 1993), segnata da un presunto “confine naturale” costituito dal Dnepr, ma piuttosto una frantumazione del Paese (simile alla disintegrazione dell’ex Jugoslavia) in quattro tronconi contrapposti, che farebbe emergere drammaticamente il carattere non nazionale dello Stato ucraino: 1) l’Ucraina occidentale di Leopoli, fino al 1939 appartenente alla Polonia, poi ceduta all’URSS nel 1945, e le regioni di Ivano- Frankivs’k e di Ternopil gravitanti culturalmente verso Varsavia; 2) l’Ucraina di Kiev; 3) la zona orientale a grande maggioranza orientata a rinsaldare i legami con Mosca, comprensiva dell’importantissima area carbonifera e industriale di Donetsk, della provincia di Dnipropetrovs’k, dell’Odessa oblast’e del Mykolaivs’ka oblast’, dove si concentra l’80 per cento del potenziale produttivo ucraino e il 20-30 per cento del reddito nazionale; 4) la Crimea ritornata sotto sovranità russa (ma divisa territorialmente dalla Federazione dallo Stretto di Kerč), il cui nuovo status internazionale non è riconosciuto dall’Unione Europea e dagli Stati Uniti.
Proprio la separazione geografica della penisola sul Mar Nero dalla Russia e la sua dipendenza, per quello che riguarda le risorse energetiche e idriche, dall’Ucraina, che il 28 aprile ha dichiarato di voler punire la regione ribelle con il taglio delle forniture d’acqua da cui essa dipende per l’80 per cento, ha acceso la miccia di questo bellum intestinun e internecinum, il cui numero crescente di vittime tra belligeranti e civili (attualmente pari a più di quattromila morti, secondo le fonti ONU) è stato in un primo momento deliberatamene passato sotto silenzio dai media occidentali. Di fronte alla minaccia dello strangolamento idrico della Crimea, Mosca è stata costretta a reagire con una brusca intensificazione del suo impegno militare, che necessariamente l’ha spinta a ripristinare la contiguità territoriale con la penisola, puntando all’annessione, magari parziale, dell’Ucraina sud-orientale attraverso la subdola strategia di una proxy war (“guerra per procura”).
Per raggiungere tale obiettivo, Putin non intende puntare su una competizione bellica aperta e dispiegata di tipo georgiano, ma piuttosto su un’operazione di forte sostegno diretto e indiretto alle province secessioniste che l’esercito ucraino e le milizie nazionaliste dell’Euromaidan stentano a riportare sotto il controllo del nuovo governo di Arsenij Petrovyč Jacenjuk. In questi dipartimenti sono state proclamate la Repubblica Popolare del Luhans’k oblast’e quella di Doneck, che significativamente ha innalzato il vecchio vessillo della Repubblica Sovietica del Doneck-Krivoy Rog a testimoniare l’indomabile volontà di costituire lo Stato federale della Novorossiya (già governatorato zarista) che, il 17 aprile 2014, Putin ha dichiarato parte integrante della Federazione Russa.
Il minaccioso schieramento russo sul confine ucraino, pari a non meno di quarantamila uomini, con il seguito di mezzi corazzati, artiglieria pesante, aviazione impegnata in voli di ricognizione/intimidazione sullo spazio aereo di Kiev, è stato smantellato da Mosca, il 28 aprile, in cambio dell’assicurazione delle autorità ucraine di non impegnare le proprie forze armate contro la popolazione russofila disarmata, come invece poi è stato fatto. Vittime della rappresaglia sono stati civili non belligeranti, donne, anziani, minori contro i quali il governo Jacenjuk ha scatenato una vera e propria “guerra ai civili”, le cui atrocità non hanno suscitato nessuna reazione né a New York né aWashington né a Londra né a Parigi né a Roma e tantomeno a Varsavia e a Stoccolma.
Per far fronte a questa vera e propria emergenza umanitaria, il Cremlino ha continuato l’invio nei centri vitali dell’est (Char’kov, Doneck, Luhans’k, Dnipropetrovs’k, Odessa) di uomini e mezzi. Piccoli ma ben preparati contingenti del Glavnoe razvedyvatel’noe upravlenie (intelligence militare), limitate aliquote di specnaz (corpi speciali) e veterani provenienti dai ranghi dell’esercito russo si sono uniti agli insorti, che reclamano, per cessare le ostilità, condizioni inaccettabili per Kiev. I filorussi, infatti, non si sono limitati a pretendere un federalismo spinto, che dovrebbe impedire l’ingresso dell’Ucraina nella NATO e la cancellazione delle frontiere economiche con la Federazione grazie all’unione doganale con Mosca, ma hanno anche avanzato la richiesta di unire la regione di Luhans’k alla Russia “in modo da ristabilire la giustizia storica”.
Da metà agosto, dopo la riconquista portata a termine dall’esercito regolare ucraino di parte del territorio conteso, il sostegno del Cremlino all’insorgenza si è ulteriormente intensificato con l’invio di convogli umanitari ma anche di blindati pesanti, carri armati, sistemi d’arma contraerei, nuovi più numerosi contingenti di miliziani addestrati in territorio russo. Di fronte alla scelta di perdere faccia e partita o di gettare sul piatto della bilancia il peso del potenziale militare in suo possesso, Putin ha preferito la seconda alternativa, dando vita a una limitata, ma incisiva e soprattutto efficace, escalation del conflitto. Questa decisione ha portato ad azioni delle truppe di Mosca contro obiettivi militari ucraini siti in prossimità del confine tra i due Stati e allo sconfinamento di contingenti russi in alcuni centri abitati nel sud della regione del Doneck in appoggio alle bande dei partigiani separatisti.
L’afflusso di alcune migliaia di soldati della Federazione ha obbligato l’esercito di Kiev a una precipitosa ritirata dalle posizioni che accerchiavano la città di Luhans’k, consentendo ai ribelli di riprendere il controllo di Novoazovsk e di lanciare un’offensiva in direzione di Mariupol. Obiettivo di quest’operazione è stato quello di aprire un secondo fronte lungo la costa sud-orientale del Mar d’Azov, dove agisce, appunto, l’ormai tristemente noto “battaglione Azov”. Un’agguerrita formazione paramilitare, composta da volontari neonazisti e antisemiti provenienti da Francia, Belgio, Inghilterra, Grecia, Finlandia e Paesi scandinavi, che è stata ufficialmente incorporata nella Guardia nazionale ucraina, insieme ad altri gruppi armati della destra estrema, con un decreto emanato dal ministro dell’Interno ucraino Arsen Avakov. La partecipazione di foreign fighters al conflitto non riguarda, in ogni caso, soltanto lo schieramento pro Kiev. Tra le fila dei separatisti si è registrata, infatti, la presenza di numerosi combattenti provenienti dall’Asia centrale (uzbechi, kazaki, turkmeni), che testimonia il successo dell’appello all’unità del “mondo Russo” post sovietico lanciato dalla propaganda moscovita.
Il successo militare riportato dai regolari russi e dai loro fiancheggiatori è stato immediatamente speso sul piano diplomatico da Putin che, il 31 agosto, ha formalmente chiesto l’avvio di negoziati per arrivare rapidamente alla creazione di uno “Stato indipendente nel sud-est dell’Ucraina, sola soluzione idonea a proteggere gli interessi legittimi delle persone che vivono in quelle regioni”. Anche dopo l’accordo per il cessate il fuoco, siglato il 5 settembre a Minsk tra Russia, Ucraina e le Repubbliche di Doneck e Luhans’k, la situazione è lontana dall’essersi normalizzata come hanno dimostrato prontamente e puntualmente le violazioni della tregua da parte dei contendenti e l’unilaterale minaccia di Obama di colpire Mosca con draconiane misure di ritorsione economica in caso di ripresa delle ostilità.
Da “Il conflitto russo-ucraino. Geopolitica del nuovo (dis)ordine mondiale” Eugenio Di Rienzo