Sanità: non minori spese ma spese giuste
Da undici anni il trend prevalente nel settore sanitario sembra essere quello di relegare la definizione delle scelte strategiche a valutazioni di contenimento dei costi. Non è un caso, né è da considerare una semplice sfumatura, la differenza nella strutturazione dei LEA, prima individuati contestualmente all’individuazione delle risorse» (D.lgs. 229/1999), poi definiti «compatibilmente» con esigenze di equilibrio della finanza pubblica (D.lgs. 68/2011). In alcuni casi il problema del contenimento degli sprechi in sanità si pone come vexata quaestio carica di contraddizioni, pur di fronte all’evidenza di una maggior elasticità di crescita dell’aggregato-spesa sanitaria rispetto al PIL. La crescita del debito e la crisi finanziaria nel cui contesto sono stati adottati tagli lineari e provvedimenti di spending review (D.L. del 06/07/20123) ha suscitato nuovo interesse – quindi – rispetto al diritto di accesso universale alle cure e all’assistenza sanitaria, colonna portante del nostro servizio sanitario nazionale.
Nel dibattito che da anni ormai insiste sulla migliore riforma possibile, il problema centrale sembra essere quello della comprensione e della sostenibilità economica del sistema stesso; tuttavia il contesto macroeconomico e strutturale in cui la questione si inquadra richiede di metter a fuoco il concetto forse meno discusso di spesa buona – quindi giusta – piuttosto che di minor spesa. In tempi di rigore e di manovre tese al vincolo del pareggio di bilancio, ci si domanda se il principio dell’universalità di accesso alle cure, benché sancito costituzionalmente, sia ancora difendibile, e può essere confortante notare che le statistiche internazionali non ne avallano la scarsa economicità, o meglio insostenibilità, rispetto ad altri modelli.
L’insostenibilità del sistema garantito dalla nostra Carta è spesso additata come empasse ma, a differenza di altri sistemi (come quello statunitense) in cui c’è un doppio binario e sostanzialmente una preponderante erogazione di servizi da parte del canale privato, il nostro sistema non disegna una sanità a misura di classi più privilegiate, le sole che possano sostenere gli alti costi assicurativi. E allora ha senso ancora e solo parlare di sostenibilità economica? Se si, a quale sistema ci riferiamo?
Nel modello statunitense paradossalmente il livello della spesa sanitaria rispetto al PIL è quasi doppio rispetto alla media degli altri Paesi più sviluppati. Inoltre, al di là delle punte di eccellenza, quello statunitense dimostra un’accessibilità alle prestazioni nettamente inferiore per le fasce deboli. Nel nostro Paese si spende per la Sanità meno della media dei Paesi OCSE: nel 2011 la media dei Paesi OCSE rispetto al PIL era del 9,3%, con gli USA al 17,7% e l’Italia al 9,2% (Graf. 1)4. Se si guarda al tasso di incremento della spesa nel periodo 2000-2011, l’Italia è stato uno dei Paesi OCSE più virtuosi, con una crescita media annua dell’1,8% contro una media OCSE del 4,1%. Se si restringe l’analisi alla sola componente pubblica, che in Italia è leggermente superiore alla media (nel 2011 77,8% vs. 72,2% della spesa sanitaria), i risultati non cambiano di molto, con una crescita media annua nel periodo 2000-2011 che si è fermata in Italia al 2,3% contro il 4,2% della media dei Paesi più sviluppati. Tanto per fare qualche esempio, nello stesso intervallo temporale l’incremento medio annuo del budget pubblico negli USA è stato del 5%, nel Regno Unito del 4,9%, in Spagna del 4,5% e in Olanda addirittura del 7,4%.
Tratto da Sanità a 21 velocità, a cura di Lorenzo Cuocolo, Stefano da Empoli, Davide Integlia, Rubbettino (clicca qui)