Politica e/è Visibilità
Qualche volta ci stupiamo che in Italia stiamo assistendo a un inedito scambio dei ruoli: i comici fanno politica (non solo Grillo) e i politici fanno i comici (a partire dal Cavaliere). Se questa è una nota caratteristica del nostro Paese, bisogna dire che il fenomeno attraversa in vari modi molti Paesi dove sono gli uomini e le donne dello spettacolo (cinema, televisione ecc.) che fanno politica, qualche volta con la P maiuscola. È il caso, ad esempio, dei divi di Hollywood – come Angelina Jolie, Mia Farrow, Sean Penn, George Clooney e altri – impegnati in denuncie su guerre dimenticate – come nel Darfur o in Congo – o in campagne per la ricostruzione di Paesi dimenticati come Haiti. Mentre i rappresentanti dei governi sono schiacciati dalle emergenze e dalla sopravvivenza della loro poltrona, diverse volte sono uomini e donne di spettacolo che si occupano dei più gravi problemi dell’umanità – come il mutamento climatico o la fame nel mondo – sensibilizzando l’opinione pubblica su questi temi ignorati, o solo affrontati saltuariamente, dai grandi mass media. Si può dire che lo fanno per acquistare prestigio, che sono radical chic, ma non si può negare che riempiano un vuoto lasciato dalle forze politiche di governo e di opposizione, alla ricerca di voti e consenso su temi più sensibili alla pancia dell’elettorato. Questa scomparsa della voce dei politici di professione sulle grandi sfide del nostro tempo è certamente legata alla caduta verticale dei partiti, forme di associazione non più adeguate al mutamento tecnologico e culturale dei nostri tempi.
Un ampio dibattito sulla crisi dei partiti è stato avviato da almeno un ventennio in tutto il mondo occidentale. In Italia, Paul Ginsborg, Marco Revelli e Piero Bevilacqua, insieme ad altri studiosi, hanno ricostruito il percorso che ha portato alla crisi della democrazia rappresentativa e dei partiti di massa. La crisi verticale è evidente, ma il passaggio ad altre forme di organizzazione della democrazia è molto, davvero molto complicato. A sinistra, è in voga da anni la parola magica «partecipazione», ma quando si tratta di renderla operante emergono inerzie, conflitti, demagogia, che la rendono poco credibile ed efficace. D’altra parte, in Paesi di decine di milioni di persone la «democrazia rappresentativa» è ineliminabile, anche se non è più accettabile e credibile la forma attuale che risale al XIX secolo, dove non c’erano i mass media che hanno cambiato radicalmente le forme, la forza e il ruolo della comunicazione.
Quello che è davvero paradossale è che, mentre i partiti di massa scompaiono, i leader diventano onnipotenti, si identificano totalmente con il partito, sono il Partito4. La gente non dice più sono fascista o comunista, oppure credo in quel partito, ma mi piace quel leader A oppure B, e non mi piace, anzi mi fa ribrezzo quel leader C, il leader D è simpatico, ma non è una persona che mi dia sicurezza. In fondo è quello che da tempo avviene nella superpotenza americana: la lotta per la presidenza più che una lotta tra programmi e visioni del mondo è una lotta tra due personaggi. Il massimo di questa personalizzazione della politica si è registrato negli United States, come in nessun altro Paese. Data la semplificazione del sistema elettorale nordamericano, l’esistenza di soli due partiti di fatto, lo scontro finale tra il presidente e lo sfidante sembra un incontro di boxe. Non a caso i media, gli osservatori specializzati, alla fine di ogni incontro televisivo tra i due candidati alla presidenza del Paese più potente della terra, assegnano dei punti come si fa dopo un incontro di boxe o in una gara di ginnastica artistica, di tuffi dal trampolino, di ballo ecc.
Da un’altra angolazione, possiamo dire che la visibilità è da sempre una necessità per chi entra nel «campo della politica», secondo la nota definizione dei «campi» di Bourdieu. Infatti, una delle poche leggi della politica, nota da tempo, recita come segue: «purché si parli di me, comunque se ne parli, purché se ne parli». Personalmente ho sentito per la prima volta questa «massima» dalle labbra di un segretario provinciale della Dc calabrese. Era il mitico 1968, e io ero uno studente come tanti altri che credeva che la politica fosse una battaglia ideale per affermare una visione del mondo. Il cinismo con cui quest’uomo, che era stato attaccato dai giornali locali, parlava della politica mi turbava. Lui, che si professava cattolico, che faceva ogni domenica la comunione nel Duomo della città, aveva rapporti stretti con la ‘ndrangheta e con tutti i traffici legali e illegali, ma era preoccupato solo del fatto di restare al centro della scena mediatica. Aveva decisamente anticipato i tempi.
La crescita iperbolica dei mass media ha cambiato tutto. Una volta i comizi giocavano un ruolo decisivo, sia nell’affermazione dei leader, sia nella veicolazione delle idee/ideologie. Un politico doveva sgobbare, faticare durante la campagna elettorale per parlare con migliaia di persone. Doveva avere capacità oratoria, reggere stressanti tour e infiammare la piazza. Oggi, gli bastano pochi minuti di intervista nei canali più visti della televisione, o su Twitter o altri social network. Inoltre, non ha più bisogno di riunire la segreteria del partito, di sentire il parere degli altri dirigenti, per prendere le decisioni. Le prende «in diretta». Il resto del partito, spesso confuso e frastornato, non può che prenderne atto.
Alle volte bastano pochi secondi ai Tg, purché si ripetano periodicamente. «Uno dei grandi problemi è il prezzo che tutti devono pagare alla spettacolarizzazione delle cose che fa scadere ogni “visione” in una affannata gestione del presente».
Una volta il politico doveva conquistarsi la stima della gente, con il suo operato, con la sua condotta di vita, con la sua vicinanza ai bisogni del territorio. Oggi, la reputazione nella sfera politica si conquista diversamente. Sacrificato al principio di «visibilità» il concetto di stima – come scrive giustamente Stefano Bartezzaghi – ha perso ogni valore per essere ridotto a immagine evanescente: «[…] la politica contemporanea dimostra che la “reputazione” perde il suo sostrato (quell’identità immateriale, ma concreta e comprovabile, verificabile perché falsificabile, fatta di storia personale e memoria collettiva) e assume l’evanescenza dell’immagine. Brand, costruzione puramente comunicativa, ectoplasma di un’entità inconsistente e semi-fantasma, l’immagine(o reputazione immaginaria) cerca di divenire icona e mettersi così al riparo da ogni revisione storica».
Il problema della visibilità coinvolge tutte le istituzioni e, in qualche caso, in forme patologiche. Dal sindaco che per far parlare del suo Comune, per attrarre fantomatici turisti, paga dei testimonial per passeggiare nella sua cittadina di periferia9, fino all’Unione Europea che nell’erogare i suoi Fondi Strutturali si preoccupa più della «visibilità» che del modo in cui il denaro viene speso e, soprattutto, quali risultati siano stati conseguiti rispetto ai progetti presentati.
Ma la visibilità è diventata sempre più importante anche per i movimenti ambientalisti, pacifisti, new global ecc. Puoi avere le migliori idee sul mondo, condurre la più sacrosanta battaglia politica per salvare l’ambiente o opporti alla macelleria sociale dei governi dell’austerity, ma nessuno si accorge di te finché non ne parlano i mass media. Lo sa bene Greenpeace che ha costruito la sua forza e il suo consenso raccogliendo decine di migliaia di iscritti in tutto il mondo grazie alle sue fantasiose incursioni che «bucano il video», come si dice in gergo. Anche Legambiente, in Italia, è diventata un brand conosciuto e apprezzato grazie alla sua capacità di essere presente, con costanza, sui mass media. Lo strumento sono state le campagne – «pulisci il mondo» ad esempio – e i «report», come quello annuale sulle ecomafie o le bandiere blu della goletta verde. La continuità nella presenza sui mass media è fondamentale per conquistarsi uno spazio di visibilità duraturo. Lo si può raggiungere anche senza organizzare grandi eventi o avere il coraggio e la fantasia di Greenpeace. Un esempio per tutti è dato dall’ong «Amnesty International», che deve il suo successo alla serietà dell’organizzazione, al suo paziente lavoro di raccolta dati sulle violazioni dei diritti umani – a partire dalla denuncia della «tortura» e dell’uso della pena di morte – e al coinvolgimento di «testimonial» che godono di grande visibilità.
Ma ci sono gruppi e movimenti spontanei che rimangono nell’ombra e per quanto si agitino e protestino non raggiungono la visibilità e quindi cadono nell’insignificanza, in un senso d’impotenza. «Ora viene il bello …come restare a galla fino al 14-15 dicembre senza cadere nell’ombra?» – scrive Daniela sul sito di «Cambiare si può», il movimento cosiddetto «arancione» che è stato tenuto a battesimo a Roma il 1° dicembre del 2012. Cadere nell’ombra, scomparire, non perché le tue ragioni, i tuoi valori, le tue battaglie non siano valide, ma perché i media non ne parlano e quindi «non esisti».
Lo vediamo ogni giorno di più nelle proteste degli studenti e dei lavoratori del sud Europa che scendono in piazza contro le politiche dell’austerity: «Purtroppo sono i media che ci obbligano ad alzare il livello dello scontro: se vogliamo far sentire la nostra voce siamo costretti a esporci a questo modo. Altrimenti sarei ben contento di attaccare dei manifesti con le nostre idee, come fece Lutero sulla porta della chiesa, ma adesso non otterremmo lo stesso effetto».
Le rivolte che hanno dato vita alla cosiddetta «primavera araba» ne sono una chiara dimostrazione. I «dittatori» di Egitto e Tunisia, formalmente eletti, sono stati rovesciati grazie a una sollevazione delle piazze, con centinaia di morti e feriti, che ha fatto il giro del mondo sui mass media. È molto probabile che se i network mondiali della comunicazione avessero ignorato queste rivolte, anziché dargli la prima pagina, i partecipanti si sarebbero demoralizzati o non avrebbero avuto la forza di andare avanti rischiando ogni giorno la vita fino al raggiungimento del risultato finale: cacciare governo e presidenti corrotti e impopolari.
Quanto contino i mass media, nel dare forza e coraggio alle manifestazioni popolari, l’ho sperimentato personalmente, quando avevo vent’anni, in un’area periferica e marginale del mondo come è la città di Reggio Calabria. La lotta per il capoluogo che si scatenò a partire dal 14 luglio del 1970 e durò ininterrottamente per sei mesi, ebbe una sua caratteristica inedita, almeno per l’Italia: i manifestanti scendevano nelle strade la mattina, organizzavano le barricate, si scontravano con la polizia, i carabinieri e l’esercito, e poi all’ora di pranzo correvano a casa per «vedersi» sul Tg 1 o 2 della Rai (non c’erano altri canali!). Nel pomeriggio il rituale si ripeteva con la sospensione della lotta all’ora del Tg delle 20 che diventava una specie di specchio della regina nella favola di Biancaneve. Parlavano di quello che stavi facendo, ti vedevano milioni di persone, sentivi di fare la storia, di essere al centro dell’universo, e questo ti dava la spinta ad andare avanti. All’inizio degli anni ’70 del secolo scorso, in una piccola città di provincia del Sud Italia si stava sperimentando, per la prima volta e inconsapevolmente, il rapporto tra mass media e lotta politica, un legame che diventerà sempre più stretto e rilevante nei decenni successivi.
Tonino Perna
Tratto da Schiavi della visibilità, Rubbettino (clicca qui)