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Non ci sono più i giovani di una volta…

Molte volte abbiamo sentito ripetere che i giovani di oggi non sono come i giovani di un tempo, che sono meno impegnati, s’interessano meno alle cose del mondo, fanno meno politica. Non credo proprio che le cose stiano così. Posto che i giovani di ogni tempo sempre giovani sono (Benedetto Croce aveva sintetizzato la faccenda sostenendo che l’unico problema specifico dei giovani consiste nell’invecchiare), e posto che i giovani di un tempo, grazie al cielo, non hanno in bocca le parole e in testa le idee dei giovani di un tempo prima, e neanche di un tempo dopo, quello cui assistiamo non è a un mondo con meno politica, ma con meno ideologie. Ed è un mondo migliore, anche se non dispone di bussole certificate (ma scassate).
Chi fu giovane negli anni Settanta, del secolo scorso, ben ricorda i furori ideologici. Ma ricorda anche dove sfociarono le esagerazioni: nell’autodistruzione dell’eroina e nella distruzione del terrorismo. Certo, erano minoranze, per quanto consistenti, ma erano, appunto, le avanguardie più determinate di quella follia. Che oggi si riproducono nell’assenza di ideologie, quindi fornendo clienti alle droghe da ballo e da sballo, come braccia alla violenza ultras negli stadi. Restano minoranze, ma frutto della stessa spinta a esagerare. Quelli di un tempo e quelli di oggi non meritano seminari sociologici improntati al compatimento e alla protezione, ma iniziative di ordine pubblico improntate all’interdizione e alla punizione. La vita della gran parte dei giovani, però, ieri come oggi, scorre al fianco di quei fenomeni, magari ne assaggia l’esistenza, ma ne rimane sostanzialmente estranea. Considerare quelli di oggi meno politicizzati di quelli di ieri è un’illusione ottica, data dalla non riconoscibilità immediata degli schieramenti. Ma tale minore riconoscibilità non è un’esclusiva del mondo giovanile, perché si riscontra a tutti i livelli della vita pubblica. Ed è un bene che porta degli inconvenienti.
Osservate il modo e il mondo in cui viviamo: la politica (e dico mondo, quindi non solo l’Italia) raggiunge il suo più basso livello attrattivo, quindi tocca il suo massimo discredito, nell’era in cui produce anche meno danni. Osservate il mondo di un secolo addietro, capace di riverberare la sua radiazione, originata dall’800, fin al concludersi della Guerra fredda (altro che «secolo breve» quello ideologico è stato un secolo lunghissimo, ma non percepibile da storici ideologizzati): la politica muoveva masse di persone, ma generava tragedie immani. Allora, perché si ha quasi nostalgia di ciò da cui è stato così costoso affrancarsi? Perché le ideologie deformavano la realtà e storcevano la vita degli esseri umani, ma fornivano una visione del mondo, della storia, quindi della vita.
Un buon comunista era pago di spendere la vita testimoniando, al fianco dei propri compagni, la determinazione nel combattere per la giustizia e la pace, laddove il produrre dittature e guerre era considerato il frutto della resistenza degli interessi capitalistici nell’avversare il sole dell’avvenire. Un buon comunista sapeva riconoscere da che parte stare, perché Lenin aveva ben descritto il ruolo guida del partito, quindi bastava seguirne i dettami. Ed era chiaro che quello cui si tendeva era un mondo migliore, che avrebbe cancellato lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. E peccato che praticava l’esatto contrario. Ma un buon fascista era in quella stessa condizione (solo che durò meno), perché sapeva che stava affermando il valore della patria, riscattando il risorgimento tradito e assicurando alla «grande proletaria» (espressione coniata da Giovanni Pascoli nel 1911, in occasione della campagna libica) le terre al sole, le colonie cui aveva diritto. Ed è vero che i colonizzati erano stati gasati mentre i proletari (e non solo) si nutrivano con la tessera annonaria, ma questo si doveva alla resistenza che le forze demo-pluto-giudaicomassoniche, egregiamente incarnate dalla perfida Albione, opponevano al trionfo di un mondo di eguali. E a chi voglia sentir correre per la schiena un brivido di vera paura e disagio profondo suggerisco la lettura di un libro (Le benevole, di Jonathan Littell) che, portando il lettore dentro il nazismo, «dimostra» la fondatezza e la forza dell’ideologia ariana, della razza perfetta, di quanto fosse opportuno cancellare chi voleva corromperla. E non occorre (spero) che aggiunga nulla su cosa questo produsse: non un capitolo di disumanità, ma una storia di umana miseria morale e di atroce e umanissima violenza sterminatrice.
Questa robaccia funzionava perché rassicurava. Consegnava a compagni e camerati il conforto di combattere al fianco di altri giusti, consentendo loro di trovare anche il coraggio di morire, pur di non venire meno alla fedeltà e all’impegno preso di non arrendersi al male. Basta pensare a quanto atroci furono quelle sicurezze per apprezzare la dolcezza di molte insicurezze odierne. Perché quello che queste scuole consideravano il «male», la decadenza, l’assenza di idee forti e qualificanti, la corruttela dei costumi, ovvero la democrazia, il parlamentarismo, i partiti politici in conflitto fra loro, il lungo discutere, l’insultarsi, ebbene: tutto questo vinse. Grazie agli dei della storia (nonché alle armate anglo-americane), vinse. Ultrastraevviva: vinse. Ma quei sogni malati non furono guariti e si trascinarono ancora per molti anni, seminando morti ammazzati fino al recente passato. Ecco, la politica di cui tanti sentono la nostalgia, ricordandola male, viveva in quella brodaglia. E se solo rivivesse, se esistesse una goccia d’ambra che ne conservasse il gusto e l’odore, liberandone oggi gli umori, quegli stessi sarebbero presi da conati di vomito. Il che è un bene. Ma, ed è qui che torna il nostro ragionare, senza quei soli e quei miti, si perde la capacità di credere che la storia abbia un verso e un destino, talché si tratta di cavalcarla nella direzione giusta. Quindi si sente lo smarrimento, da cui discende la paura. Che sia benedetta.

Tratto da Senza paura di Davide Giacalone, Rubbettino