Politica, Scienze sociali by pillsadmin - tagged: , , , , , , ,

Le radici del “fallimento” politico del berlusconismo

Nell’analisi storica dei fenomeni politici è pericoloso parlare di «fallimento». Rispetto a che cosa, infatti, un determinato movimento, uomo o partito avrebbe fallito? Il giudizio non può che articolarsi su molteplici livelli, e difficilmente convergerà su una risposta semplice e univoca. Definire fallimentare il berlusconismo, inoltre, sarebbe per molti versi assurdo. Ha vinto tre elezioni politiche nazionali, oltre a innumerevoli altre a ogni livello, dando al Paese quattro governi durati nel loro complesso quasi dieci anni. Ha segnato in profondità la storia politica italiana per un lasso di tempo ventennale – un’età che con ogni probabilità i futuri libri di storia definiranno «berlusconiana». Ha avuto un impatto sullo spazio pubblico italiano che può essere considerato sia coerente con gli obiettivi che esso stesso si era prefissati sia, almeno da alcuni punti di vista, positivo: ha estratto dal loro profondo scetticismo, mobilitato e coinvolto nella vita pubblica pezzi di società che pochi fino ad allora erano riusciti a raggiungere; ha restituito piena rappresentanza alla destra anti-antifascista, riavvicinando l’offerta ideologica delle élite alla domanda proveniente dal Paese; soprattutto, ha creato le condizioni perché prendesse forma un sistema politico bipolare, per quanto terribilmente sbilenco, e gli schieramenti contrapposti si alternassero al potere.
E tuttavia se il Cavaliere, rovesciando l’approccio ortopedico e pedagogico che ha segnato la storia d’Italia fin dall’unificazione ed enfatizzando la positività e l’autonomia della società civile, ha inteso proporre una soluzione originale al problema della mancata corrispondenza fra Paese reale e Paese legale, è evidente allora che quella soluzione – per lo meno per come l’ha perseguita lui – non ha funzionato. Non per caso al novembre del 2011, momento nel quale si è dimesso il quarto governo Berlusconi, il Paese si è ritrovato in circostanze politiche più gravi ancora di quelle del 1992-’94: crisi, frammentazione e paralisi dei partiti; episodi continui di corruzione e malgoverno; consapevolezza dell’insufficienza di istituzioni che però nessuno riesce a riformare; ondate alte e robuste di antipolitica.
Il «fallimento» del berlusconismo, del resto, lo hanno per certi versi certificato il Cavaliere stesso e il suo elettorato già nel 2006. Dal 1994 al 2001 i discorsi di Berlusconi non sono variati molto né nei contenuti né nel tono. Nel 2005 invece, nei mesi successivi alla sconfitta alle elezioni regionali, il tono è cambiato a tal punto da condizionare pure i contenuti. L’approccio ottimistico, positivo, costruttivo e programmatico dei tardi anni Novanta ha lasciato completamente lo spazio a un atteggiamento giustificatorio e recriminatorio [v. Roncarolo 2007] teso da un lato a rivendicare quel che il governo aveva fatto, dall’altro ad attribuire la responsabilità per quel che non era stato fatto ai tanti ostacoli che lo avevano limitato e condizionato – l’assenza di sovranità piena quanto alla politica economica; le colpe della sinistra sia per la situazione che avevano lasciato gli esecutivi del periodo 1996-2001 sia per l’opposizione pregiudiziale; i dissensi interni alla coalizione di centrodestra. Avendo ripiegato su un atteggiamento difensivo così lontano da quello di quattro o cinque anni prima, il Cavaliere a quel punto non poteva più chiedere con troppa convinzione un voto positivo di sostegno al proprio schieramento e al proprio programma, ed è passato a chiederne uno prevalentemente negativo che tenesse lo schieramento avversario lontano dal potere. Se l’avversione per le sinistre in generale e l’anticomunismo in particolare hanno sempre costituito elementi portanti della retorica berlusconiana, dal 1994 al 2001 tuttavia i discorsi contro erano rimasti sempre inseparabili dai discorsi pro: il Cavaliere chiedeva un voto bifronte, che escludesse i cattivi e desse al contempo forza ai buoni. Nel 2005 l’approccio è stato profondamente diverso. La parte positiva della comunicazione era in larghissima misura volta al passato, ossia difendeva quel che era stato fatto ben più che prospettare interventi nuovi, mentre del futuro si parlava soprattutto in termini negativi, di opposizione alla sinistra. Per esser ancora più precisi, l’argomentazione procedeva secondo lo schema tripartito «rivendicazione, giustificazione, esclusione»: «ho fatto molto; per ragioni indipendenti dalla mia volontà non potevo far di più; e comunque, anche se siete insoddisfatti, dovete votare per me perché sono pur sempre meglio di quegli altri». Anche la campagna elettorale del 2006 ha seguito passo per passo questo schema: da un lato difesa del quinquennio di governo, dall’altro, e ancor di più, enfasi sui difetti dello schieramento di centrosinistra e sui danni che avrebbe potuto fare se avesse vinto [v. Campus 2006, pp. 161-162; Itanes 2006a, pp. 95 ss.; Mancini 2007]. Come ha avuto modo di osservare Nando Pagnoncelli, il Cavaliere nel 2006 «ha saputo sostituire il sogno con la paura» [in Vespa 2010, pp. 218-219].
L’assunto implicito in questa impostazione – che avendo il berlusconismo almeno in parte fallito non fosse possibile puntare più di tanto sulle sue capacità realizzative, e meno ancora su quelle «rivoluzionarie » – ha trovato piena corrispondenza nell’elettorato moderato. Il quale per un verso dava un giudizio negativo dell’esperienza di governo che si era appena conclusa, e anche per il futuro mostrava scarsa fiducia nella capacità della coalizione di centrodestra di risolvere i problemi del Paese. Per un altro, e conseguentemente, era interessato alla componente programmatica del berlusconismo assai meno che nel passato. Molti di quelli che avevano votato il Cavaliere nel 2001 lo avevano fatto perché – seppure magari in maniera cauta e dubitativa – erano stati convinti dai progetti che aveva promesso di realizzare. Nel campione Itanes gli elettori del centrodestra, in percentuale significativamente maggiore rispetto a quelli di centrosinistra, avevano saputo motivare il proprio voto sulla base di una ragione specifica, e quasi sempre come motivo avevano citato una proposta politica, dalla riduzione delle tasse all’aumento dei posti di lavoro. In più, alla domanda se il loro voto fosse stato guidato soprattutto dal programma, dal leader, dal partito o dalla coalizione, una quota significativa di essi aveva indicato il programma [v. Legnante 2002, e Maraffi 2002]. Bene: nel 2006 quest’ultima percentuale, se per il centrosinistra è rimasta più o meno stabile, per il centrodestra invece è crollata verticalmente [v. Itanes 2006a, p. 200, tabella 12.1]. Nel 2001, insomma, una campagna elettorale programmatica aveva trovato un certo credito. Cinque anni dopo lo scarso interesse per il programma – ossia per quanto di positivo il berlusconismo avrebbe potuto fare nell’immediato futuro – ha caratterizzato invece sia l’offerta che calava dall’alto sia la domanda che saliva dal basso.
Per analizzare più da vicino il «fallimento» del berlusconismo e le sue ragioni occorrerebbe molto più spazio di quanto non ne sia disponibile in questa sede. Bisognerebbe per altro entrare almeno in una certa misura nella valutazione sia della sua attività di governo, prolungata, complessa e quantitativamente imponente (1028 leggi, 524 decreti legislativi, 525 decreti legge, 1730 decreti del Presidente del Consiglio dei ministri – v. Sole-24 Ore 2011, pp. 38-39], sia dei limiti storici, politici, istituzionali e culturali entro i quali essa si è svolta. Nelle pagine che seguono mi limiterò a esaminare due possibili concause di quel «fallimento», entrambe interne al berlusconismo e collegate strettamente l’una all’altra.
La proposta politica di Berlusconi, per come l’ho descritta nel secondo paragrafo, è stata oltremodo ambigua. È rimasta sospesa, in particolare, fra due polarità tutt’altro che semplici da far convivere l’una con l’altra: una polarità che per semplicità ho chiamato populista, il cui nucleo è consistito nella «santificazione» del Paese reale; e una liberale di estrema destra, per la quale il «popolo» è stato concepito in maniera individualistica, e l’enfasi sulle virtù dell’Italia ha generato un programma finalizzato a ridurre in misura consistente il peso dello Stato sulla società civile [v. anche Moroni 2008]. Ora, le componenti populiste e quelle liberali del berlusconismo hanno potuto convivere unicamente a partire da una premessa alquanto azzardata: la convinzione che il «popolo» italiano fosse già liberale – che fosse capace di far da sé, e non vedesse l’ora di farlo. Soltanto grazie a questo assunto è stato possibile riconciliare la persuasione che il Paese fosse perfetto così com’era, e non andasse perciò in alcun modo raddrizzato né rieducato, con un programma di ristrutturazione dei poteri pubblici legato ai temi dello «Stato amico». Ovvero postulando non solo che quel programma gli italiani fossero perfettamente in grado di reggerlo, ma anche e soprattutto che si trattasse esattamente di quello che essi stavano chiedendo. Se si fosse eliminato quel postulato – immaginando ad esempio che dal «popolo» salisse in realtà una richiesta di maggiore protezione e di più Stato – l’emulsione berlusconiana di liberalismo e populismo sarebbe senz’altro impazzita.
Che la società italiana fosse capace di far da sé e non vedesse l’ora di farlo, tuttavia, era una premessa largamente fittizia – e qui mi sembra possibile trovare una prima causa del «fallimento» del berlusconismo. Dopo centocinquant’anni di ortopedia e pedagogia l’Italia era stracolma di Stato. Frenata, ingessata, irritata – ma pure aiutata, sostenuta e pagata dallo Stato. Il rapporto fra interessi privati e intervento pubblico, fra i desideri contrastanti da un lato di maggiore libertà, dall’altro di maggiore protezione e conservazione dei privilegi, si era ormai trasformato in un garbuglio storico quasi impossibile da districare. Per il populismo berlusconiano, sostanzialmente conservatore, l’espressione «accettare il Paese così com’è» andava ciò nonostante presa alla lettera: l’Italia non doveva essere in alcun modo forzata. Il liberalismo berlusconiano invece, sostanzialmente rivoluzionario, riteneva che «così com’è» significasse press’a poco «così come sarebbe naturalmente stato se l’intervento pubblico non l’avesse artificialmente distorto e corrotto», e chiedeva perciò un’opera imponente di smantellamento dello Stato. Un’opera quanto mai dolorosa, perché l’apparato ortopedico, penetrato ormai in profondità nelle carni del Paese, era terribilmente fastidioso ma pure difficilissimo da strappar via, soprattutto se l’Italia non la si voleva far soffrire – e se si doveva raccoglierne il consenso.
A queste difficoltà strutturali, inoltre, via via che ci si allontanava dagli anni Ottanta erano destinati ad aggiungersi ulteriori ostacoli legati al mutare del clima storico. Nei primi anni Novanta, agli esordi del berlusconismo, erano in molti, e non certo soltanto a destra, a dirsi convinti che la società civile si sarebbe mostrata capace di sostenere il processo di rinnovamento. A illudersi insomma che il Paese fosse pronto a scrollarsi parecchio Stato di dosso e a organizzarsi da sé, senza che ci fosse alcun bisogno di educarlo o forzarlo. Già nell’ultimo lustro del xx secolo tuttavia, e ancor di più nella prima decade del xxi, ossia nella stagione del berlusconismo di governo, l’atmosfera era profondamente cambiata: per la cultura liberale aveva preso avvio un periodo di riflusso – destinato a essere rafforzato dall’11 settembre prima e poi, enormemente, dalla crisi economica cominciata nel 2007 –, e larghi strati dell’opinione pubblica consideravano ormai i processi di globalizzazione non come una straordinaria opportunità da cogliere, ma come una pericolosissima minaccia dalla quale proteggersi [v. Lazar 2009, pp. 96-97]. Date queste circostanze, restringere i confini dello Stato e restituire alla società quote crescenti di risorse, potere e autonomia, perfino là dove quella società non lo stava neppure chiedendo, era un’operazione che poteva essere compiuta soltanto mettendo in campo una gran quantità di risorse specificamente politiche. E se non ortopediche, per lo meno pedagogiche. I tempi non potevano essere brevi né i risultati giungere subito, le riforme sarebbero state dolorose nel breve periodo e fruttuose soltanto nel lungo. Gli italiani dovevano essere convinti ad avere molta pazienza, ad accettare di soffrire oggi per poter godere domani.
Il berlusconismo tuttavia – questa la seconda ragione del suo «fallimento » – è stato particolarmente scarso di risorse di mediazione politica. Ai suoi esordi questo difetto era del tutto inevitabile. Nel 1994 il centrodestra italiano era largamente desertificato, e il Cavaliere, con la sua personalità e le straordinarie risorse economiche, organizzative e mediatiche delle quali poteva disporre, ha svolto un’opera di supplenza a dir poco sbalorditiva: un singolo individuo ha costruito nello spazio d’un mattino un’area politica potenzialmente maggioritaria in un Paese industrializzato di sessanta milioni di abitanti, esprimendo opinioni, interessi e pulsioni che da trent’anni erano prive di cultura e legittimità, e che i giudici di Mani Pulite avevano reso orfane di rappresentanza politica. Con il tempo, tuttavia, era lecito immaginare che la supplenza di Berlusconi si sarebbe venuta via via facendo meno determinante, e che il centro destra si sarebbe sempre più dotato di risorse specificamente politiche. In una certa misura, in effetti, così è stato: già con il 1996 si è aperta la stagione del radicamento del berlusconismo, come mostrano chiaramente i non molti studi che si sono occupati della questione. Radicamento organizzativo, in primo luogo: fra il gennaio del 1997, momento in cui è entrato in vigore un nuovo statuto, e il 2001 Forza Italia è venuta evolvendo da movimento in un vero e proprio partito con tanto di iscritti, organi collegiali, regole per la selezione della classe dirigente. Radicamento locale, poi, con uno sforzo notevole di penetrazione nel territorio e costruzione di consenso in previsione del voto nazionale del 2001. E infine radicamento nella competenza politica, con un’opera di recupero dei «reduci» della stagione precedente a Tangentopoli – localmente più ancora che a livello nazionale [v. Diamanti 2009, pp. 129-136].
La trasformazione di Forza Italia da movimento in partito, tuttavia, ha trovato allora un ostacolo invalicabile nella persona del Cavaliere: il leader preesisteva alla struttura, non vi era sottoposto e in ultima istanza la controllava. All’appuntamento con la sua vera stagione di governo, nel 2001, il berlusconismo si è presentato dunque composto di due elementi organizzativi, ideologici e politici profondamente differenti. Da un lato la leadership del Cavaliere, istintiva e movimentista, legata alla retorica sempre riconfermata della bontà assoluta della società civile e della sua capacità di fiorire immediatamente non appena la si fosse liberata dai vincoli della politica e dello Stato. Dall’altro le strutture politiche – partito, classe dirigente, un po’ di cultura – che erano venute prendendo forma nella seconda metà degli anni Novanta. Queste due componenti erano per tanti versi necessariamente contrapposte. Non è però del tutto impossibile immaginare una convivenza più produttiva di quella che si è effettivamente verificata nella legislatura 2001-2006. La riforma delle istituzioni e l’avvio di un processo di ristrutturazione dei rapporti fra Stato e società avrebbero forse potuto rappresentare un terreno di convergenza: entrambe le iniziative avrebbero richiesto tempo e consumato risorse politiche, ma entrambe avrebbero anche potuto rafforzare la leadership – la prima ancorandola alle istituzioni, la seconda realizzandone almeno in parte le promesse.
Fra il 2001 e il 2006, a ogni modo, così non è stato: le due componenti del berlusconismo non solo non hanno cooperato e non si sono rafforzate l’una con l’altra – al contrario, si sono indebolite a vicenda. Da un lato, le strutture della mediazione politica sono rimaste insufficienti. E se il berlusconismo non è riuscito a istituzionalizzarsi, ossia ad ancorarsi robustamente e definitivamente a un partito, un nuovo assetto costituzionale, una classe politica, così da potersi infine emancipare dal leader, è proprio al leader che dev’essere con ogni probabilità attribuita la responsabilità principale. Il Cavaliere insomma non ha mai avuto la minima intenzione di permettere che la creatura crescesse a tal punto da poter fare a meno del suo creatore, e l’ha così rinchiusa dentro un circolo vizioso: gravemente carente in principio di mezzi di mediazione politica, il berlusconismo è potuto esistere soltanto grazie alla leadership di Berlusconi; la quale però non gli ha poi consentito di costruirsi mezzi di mediazione politica in misura tale da poter fare da solo. Dall’altro lato però il leader, non protetto da strutture adeguate di mediazione politica, è rimasto sovraccarico e sovraesposto, e si è logorato visibilmente sul piano politico così come su quello umano: struttura portante del proprio campo; punto di riferimento insostituibile degli amici e bersaglio principale degli avversari; snodo essenziale di qualsiasi iniziativa; perennemente e affannosamente occupato a rimediare alle deficienze di uno schieramento che però, come s’è detto, lui stesso voleva conservare minorenne; gravato di ogni responsabilità di fronte al Paese; (auto)condannato al successo immediato, ossia a produrre fin da subito, senza se e senza ma, risultati tangibili e consistenti [v. Cavallari 1997; Caniglia 2000, p. 149; Follini 2006; Campus 2006, pp. 155-159]. La fondazione del Popolo della libertà non ha affatto risolto il problema del rapporto fra Berlusconi e il berlusconismo. In astratto il Pdl poteva sembrare lo strumento più adatto a istituzionalizzare il patrimonio politico magmatico ma tutt’altro che inconsistente accumulatosi negli anni intorno al Cavaliere, a inserirlo nel mainstream conservatore europeo e metterlo nelle condizioni di rendersi autonomo dal Fondatore. In concreto, invece, tutto nella sua vicenda ha marciato nella direzione esattamente opposta: dall’annuncio dell’iniziativa con la cosiddetta «rivoluzione del predellino» del 18 novembre del 2007, al modo in cui è stato scelto il nome del partito e al nome che è stato scelto, al carattere largamente tattico e reattivo dell’intera vicenda – frutto dell’esigenza per un verso di rispondere alla nascita del Partito democratico, per un altro di gestire la lunga agonia del ministero Prodi, senza della cui crisi finale nel gennaio del 2008 la nuova forza politica non sarebbe probabilmente mai nata, o comunque non in quella forma. Fin dall’inizio insomma il Pdl è stato soprattutto strumentale al leader: non solo non ha istituzionalizzato il berlusconismo, ma al contrario lo ha ulteriormente de-istituzionalizzato, disperdendo fra l’altro parte del patrimonio politico di Forza Italia.
La decisione del Cavaliere di impegnarsi per l’ennesima volta in prima persona alle elezioni del 2013, nonostante la caduta disastrosa del suo quarto governo nel novembre del 2011, è stata retrospettivamente rivendicata dal risultato elettorale – che, complici anche gli incredibili errori dei concorrenti, è stato molto meno peggiore di quanto non ci si aspettasse. Ciò non toglie tuttavia che quella decisione abbia riconfermato la dipendenza del centrodestra dal suo leader, la sua incapacità di avvicinarsi a una qualche forma di consolidamento istituzionale. Il primato dell’innovazione politica, che nell’Italia degli anni Novanta e fino all’inizio degli anni Duemila era collocato saldamente a destra, a partire dal secondo lustro del nuovo secolo è passato altrettanto saldamente a sinistra – con la fondazione del Partito democratico, le primarie, la proposta grillina di democrazia diretta e partecipativa. I tempi e modi dell’uscita di scena del Cavaliere, la configurazione che potrebbe assumere un centrodestra postberlusconiano, il percorso per costruirlo, perfino la possibilità stessa che quello schieramento sopravviva al suo fondatore e leader, restano all’indomani delle elezioni del 2013, della condanna definitiva di Berlusconi e della sua decadenza da Senatore, questioni avvolte nella nebbia. Resa ancora più fitta per altro dalla situazione politica complessiva. Nelle pagine precedenti ho sostenuto che il berlusconismo ha dato rappresentanza a un’ampia parte dell’elettorato che fino ad allora aveva votato malvolentieri per partiti che considerava troppo a sinistra, e dai quali dissentiva. E ho anche giudicato questo fenomeno positivo per la maturazione della democrazia italiana. È ancora tutto da vedere, però, se su questo terreno l’eredità del Cavaliere si dimostrerà vitale.

Tratto da Giovanni Orsina “Il Cavaliere, la destra e il popolo. Per una comprensione storica del berlusconismo”, in Giovanni Orsina (a cura di), Storia delle destre nell’Italia Repubblicana, Rubbettino (Clicca qui per saperne di più)