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L’Albania e l’alta marea dei libri proibiti

Ne “I grandi occhi del mare”, l’Adriatico assume spesso la leggibilità della carta e diventa metafora straordinaria delle alte maree di libri che oggi inondano l’Albania. Aulona, piccola protagonista del romanzo di Leonard Guaci, giovane scrittore di Valona, reagiva già al regime socialista di Enver Hoxha perdendosi nelle distanze marine, contemplando le increspature dell’orizzonte che avrebbe riverberato saperi aperti, cangianti come le onde che avrebbero portato libri dall’Italia o da chissà dove. Nessuno – neppure Zyz, povero ragazzo ucciso dai “compagni” per l’amore sconfinato che aveva per la scrittura, la lettura, la poesia, le canzoni d’oltremare – si sarebbe potuto azzardare a sbirciare, in quel sistema rigidissimo di censure, libri non stampati e promossi dal partito o i canali italiani, le canzoni di Adriano, Gianni, Lucio che il PPSh (Partito del Lavoro d’Albania) additava come «diavoli capitalisti», nemici della «Causa», dello «Stato», della «Patria», portatori di degenerazioni e diseducazione. Anche Ylliet Aliçka, in un racconto autobiografico, ricorda così le letture proibite durante il regime socialista:

«Eravamo studenti e ogni volta che ci capitava per le mani qualche libro vietato, cioè pericoloso, lo passavamo di nascosto di mano in mano. E, ovviamente, quanto più quei libri e i loro autori erano pericolosi, tanto più noi impazzivamo dal desiderio di sprofondare in quello che viene chiamato “il dolce piacere della lettura”. […] Ovviamente da parte del regime c’era una classifica ben definita, basata sulla pericolosità di questi libri, esaminati in ogni particolare. Dall’esperienza delle persecuzioni, avevamo capito che il massimo della pericolosità era rappresentato dalla Bibbia: leggerla e passarla agli altri costava la pena massima, poi venivano Sartre e compagni che “con la loro tristezza e afflizione controrivoluzionaria” facevano sì che i loro lettori e propagatori pagassero con la perdita della libertà e con la deportazione della famiglia l’incauta lettura».

«Ricordo – scrive anche Ylli Demneri – la lettura dei libri proibiti per tutta la notte. Libri che si passavano di mano in mano accompagnati sempre dall’espressione: “Domattina me lo devi restituire senz’altro, qualcuno me l’ha prestato soltanto per due giorni». Per molti, libri e canzoni divennero così ricettacoli di allegorie e figure necessarie a intravedere possibili vie di fuga da quell’“isola rossa” che, dal secondo dopoguerra, il Komandanti, il «Red Boss» Enver Hoxha, ebbe a edificare reimpiegando materiali ideologici ereditati dal nazionalismo sovietico, dallo stalinismo, dal realismo letterario socialista che agli scrittori aveva assegnato il “solo” compito di avvicinarsi molto al popolo e di descrivere i sentimenti, gli ideali e la sua vita reale. […] I nostri giovani scrittori devono cogliere i loro soggetti dai grandiosi avvenimenti della storia del nostro popolo, dal passato, specialmente dalla gloriosa Lotta di liberazione nazionale e dall’edificazione delle basi del socialismo in Albania. Dagli eventi storici del nostro popolo, dalle sue lotte eroiche, vengano fuori opere di un nuovo contenuto, dove spicchi il realismo e la verità. I nostri giovani scrittori devono imparare dall’eredità della letteratura mondiale d’avanguardia e specialmente dalla letteratura sovietica del realismo socialista. Il realismo socialista deve diventare il metodo guida nel grande compito che si pone ai nostri giovani scrittori popolari. […] Il Partito pone il compito che la letteratura e le arti diventino un’arma potente nelle sue mani per educare i lavoratori con lo spirito del socialismo e del comunismo, che esse stiano nelle prime file della lotta per educare una gioventù pura ideologicamente e moralmente, che tutta la creatività artistica abbia un alto livello ideologico, che sia permeata dallo spirito rivoluzionario combattivo del Partito e da un sano spirito nazionale. Il Partito chiede che la letteratura e le arti rispecchino più ampiamente la lotta, il lavoro e la vita del popolo lavoratore, gli ideali e le sue aspirazioni, i suoi sentimenti nobili, il suo carattere eroico, la semplicità e la sua grandezza, il suo impeto rivoluzionario, rispecchino con veridicità e nel proprio evolversi rivoluzionario la realtà e la nostra attualità.

Se per i piccoli protagonisti del romanzo di Guaci i libri proibiti alimentavano così sogni di democrazia e quella consonanza tra libreria e libertà che il noto poeta Visar Zhiti particolarmente decanta, per Koço Bihiku, autore di una storia della letteratura albanese pubblicata in pieno regime, al libro sarebbe invece spettata la funzione di aprire la bandiera della lotta impugnata dalle forti mani del Partito comunista albanese, il quale, con indomito coraggio e intelligenza acuta, seppe non solo assicurare la liberazione del Paese dal dominio straniero, realizzata il 29 novembre 1944, ma anche aprire al Paese la strada verso il socialismo, come il sistema politico e sociale più avanzato.

«Scrivere per il partito, per la sua forza, per la sua idea, per la lotta di classe, veniva ripetuto in continuazione nelle scuole e nei giornali», ricorda anche Zhiti, messo in carcere per aver scritto versi ritenuti eccessivamente ermetici, che subito il regime volle leggere quali indici di revisionismo borghese, agitazione e propaganda contro lo Stato socialista.

Quando mandavamo le poesie ai giornali, alle riviste letterarie per farle pubblicare spesso le rispedivano indietro con la risposta che si trattava di poesie intimiste, sentimentali, personali che non servivano al bene della collettività. Così le prime piccole poesie che mi trovai a scrivere sono bozzetti, vignette, brevi paesaggi in cui anch’io ero stato indotto alla celebrazione della bandiera nazionale, della scuola, delle ferrovie albanesi che avevano portato a Durazzo il progresso socialista. Nonostante ciò, sin dalle mie prime poesie si capiva che non avevo accettato il totalitarismo, il mondo dei generali, dei dittatori, dei compagni, della disumanità. Anche per questo cercavo di pubblicarle. Dopo il plenum irrobustirono le commissioni di lettura e valutazione in cui dei redattori, funzionari dello Stato, controllavano i libri per il loro contenuto, per l’ideologia, per il valore estetico. Ogni libro che usciva in Albania prima di andare in libreria veniva inviato al Comitato Centrale del partito. Loro avevano il diritto finale di controllarlo prima della distribuzione ed, eventualmente, bloccarne la diffusione. Si trattava di un ufficio piuttosto occulto che, se aveva intenzione, controllava a fondo e trovava cose che non andavano bene. Dico un’altra cosa che serve a far capire la repressione culturale in cui ci trovavamo. In carcere ho conosciuto un professore; i professori, se non erano loro stessi infiltrati, venivano comunque controllati dalla Sigurimi, la polizia segreta di Stato. Mi raccontava come nelle scuole, quando assegnavano un tema da svolgere (hartim in albanese), usavano dare due tracce. Una di carattere “festivo” incentrata sulla forza, sulla gioia del popolo albanese, sulla festa o sul valore della nazionalità; un’altra, ad esempio, sulla rivolta intellettuale sostenuta dal nostro grande poeta Migjeni. Durante la correzione dei temi svolti intervenivano degli specialisti con lo specifico compito di segnalare gli allievi che mostravano un reale entusiasmo per l’ideologia comunista e quelli che già, fin da piccoli, presentavano germi di atteggiamenti rivoltosi. Insomma bloccavano al suo insorgere ogni tendenza critica, così gli alunni che avevano manifestato un iniziale entusiasmo facevano carriera mentre gli altri venivano sottoposti a un controllo spionistico che durava tutta la vita. La letteratura in Albania veniva usata per fare carriera politica. Oggi, però, con la letteratura puoi solo perdere, non vinci niente! Gli scrittori sono più poveri, hanno difficoltà a sopravvivere, hanno poco tempo e soldi per pubblicare.

Questi ricordi evocano già in modo chiaro tratti ambivalenti del libro.

Ambivalenze su cui le prospettive critico-letterarie, storiche, filosofiche, antropologiche ancora s’interrogano, specie a partire dal grande invito di Michel Foucault ad assumere ogni testo o discorso nelle specifiche circolarità sociali, nelle funzionalità di scambio che continuano a farne mezzo importantissimo di riscrittura del passato, di controllo del presente, di indirizzamento del futuro, cioè di costruzione politica della storia1. Come arma di propaganda ideologica o ponte verso la liberazione, come produttore di totalità o autorialità, come strumento di oggettivazione della realtà o di fuga da essa, il libro in Albania resta più che mai in auge; vitalissimo fulcro di una proliferante industria intellettuale, letteraria, editoriale che oggi interviene soprattutto su un cinquantennio socialista ancora in gran parte da raccontare, laddove per le nuove generazioni di scrittori le sanguinose memorie diventano ineludibili vie d’accesso alle scene della modernità e del successo.

Tratto dal libro di Mauro Geraci Prometeo in Albania. Passaggi letterari e politici di un paese balcanico, Rubbettino