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L’ispettore Manti

A poco più di un mese dalla morte di Carmine Orsini il piantone di turno in commissariato, a tarda sera, rispose a una telefonata anonima che avvertiva della presenza di un’auto crivellata di colpi lungo il torrente che costeggiava la città.

Rustici fu il primo a intervenire, accompagnato dall’ispettore Manti.

L’auto aveva i fari accesi, la portiera posteriore, dietro al lato guida, era spalancata. I fori dei proiettili incorniciavano il parabrezza ed erano concentrati sullo sportello anteriore, sul lato opposto alla guida del veicolo. Il commissario ebbe la netta sensazione di respirare l’odore della ‘ndrangheta.

Quelli erano i suoi scenari: pallettoni che devastavano tutto ciò che incontravano al loro passaggio. Vetri infranti… Volti sfigurati… Quella firma era inconfondibile.

Non si doveva toccare nulla prima dell’arrivo della scientifica e del magistrato. Si controllò il numero di targa, la macchina risultava rubata. Il volto dell’uomo alla guida era irriconoscibile. Gli occhi non potevano resistere più di qualche secondo su quei poveri resti, impossibile quasi per tutti identificare l’ucciso.

La baldanza e la sicurezza acquisite in quel mese dal commissario svanirono immediatamente. Il nemico era vitale più che mai, e nonostante l’altissima concentrazione di forze dell’ordine aveva colpito ancora. Come a dire: questo rimane il nostro regno.

Rustici si scosse dai pensieri che pericolosamente gli si affollavano in testa. Notò Manti che impassibile fissava il cadavere, senza far trasparire emozioni. L’ispettore guardava il morto da ogni angolazione, e lo stesso faceva con l’auto. Dopo qualche minuto si avvicinò al suo capo, diede fondo all’esperienza ed espose la sua ipotesi:

«Qualcuno voleva chiudere questa storia ammazzando Nino Caravita, ma non c’è riuscito. Il morto è Pasquale Caravita, fratello del latitante Nino, sicario del boss Totò Scorsello. C’era qualcuno sdraiato sul sedile posteriore dell’auto che ha aperto la portiera ed è scappato al momento dell’imboscata. Questo qualcuno deve essere svelto oltre che furbo. Il fatto che viaggiasse nascosto fa presumere che si tratti di un fuggiasco. Chi si nascondeva sulla vettura stava andando a un appuntamento; essendo ricercato aveva ormai preso l’abitudine di abbassarsi dentro le macchine, per non essere notato. Normalmente si metteva accanto al conducente, tirava indietro il sedile e si sedeva sul pavimento, tutte circostanze note a chi l’aspettava. Ma chi è abituato a dare la morte, sa che questa può arrivare in qualsiasi momento e da chiunque, così non si fida di nessuno e, per precauzione, ha cambiato abitudine in ordine al suo posizionamento dentro l’auto. Chi aspettava ha colpito l’autista per bloccare l’auto e ha poi concentrato il fuoco sulla presunta posizione del latitante; questo è dimostrato dai numerosi fori di proiettile presenti sullo sportello anteriore opposto al conducente del veicolo. Nino Caravita, prima che i sicari si rendessero conto dell’errore, è saltato fuori. Se lo conosco bene era armato. In questo caso ha sicuramente sparato, e se la sua fama non è inventata c’è qualcuno disteso nei dintorni con un buco in corpo. Se ho ragione a pochi metri dalla portiera spalancata dovrebbero esserci dei bossoli di pistola».

Rustici iniziava a imparare che l’ispettore Manti raramente esprimeva opinioni, piuttosto esponeva fatti. Pensò con terrore ai rapporti chiusi a chiave nel suo archivio.

Il commissario iniziò a cercare nel punto indicato da Manti, servendosi della pila che aveva trovato Kike von Karsten nello stazzo di Rocco Sarra. L’ispettore si mise a perlustrare nei dintorni del luogo dell’agguato con un paio di agenti. Rustici cercò inutilmente per una decina di minuti. Poi, sollevato, si diresse verso l’auto, raggiunse i colleghi che perlustravano la campagna e con la luce della pila illuminò il volto di Manti.

«Non c’erano bossoli» fece in tono ironico. Manti diresse il fascio di luce della sua pila sul terreno; il cerchio luminoso scivolò sino a inciampare su un corpo raggomitolato in posizione fetale.

«Esistono i revolver, commissario».

Il sottufficiale della polizia di stato Giovanbattista “Tito” Manti era un disilluso, aveva smesso da tempo di credere in verità assolute, svolgeva il suo lavoro senza eccedere nell’impegno, lo riteneva inutile. Evitava di trovarsi in prima linea, ma quando ciò accadeva la sua natura prendeva il sopravvento sulla ragione. Il poliziotto usciva fuori e stargli alla pari diventava impossibile.

L’ispettore guardò Rustici. Più volte fece per parlare ma si trattenne. Era in lotta con se stesso, e il commissario iniziava a comprenderlo. Alla fine sbottò: «Vuole andare sino in fondo? Ci vuole sbattere contro?»

«Proviamoci», rispose il superiore.

«Nino Caravita è uno che sa sparare, difficilmente preme a vuoto il grilletto. Cerchiamo ancora, credo che il tipo avrà presto compagnia» disse l’ispettore indicando il cadavere rannicchiato a terra. Poi informò Rustici che il morto era Salvo Pizzica, nipote di Totò Scorsello e figlio di Isidoro, cognato del boss, il costruttore la cui richiesta di concessione edilizia era stata trovata sulla scrivania del sindaco al momento della sua morte.

Sul terreno uno degli agenti trovò tracce di sangue che si allontanavano verso la città. Manti controllò, e suggerì a Rustici di mandare una pattuglia all’ospedale; qualcuno presto avrebbe avuto necessità di cure mediche.

L’ispettore fece un’ulteriore analisi dei fatti: Totò Scorsello doveva essere spaventato dopo l’assassinio del sindaco. La pressione della polizia, diretta alla ricerca del sicario, prima o poi avrebbe portato alla cattura di Caravita, depositario della verità in ordine a decine di omicidi disposti dal boss. Bisognava recedere la legge ed eliminare un potenziale testimone. La missione era fallita. Caravita diventava ora un nemico mortale; chi lo raggiungeva per primo vinceva la partita. Il latitante scappava disperato da due nemici, lo Stato e l’antistato. Galera o morte. Il killer in fuga doveva evitare i mafiosi, trovare un rifugio e scappare lontano il prima possibile.

Manti aveva condotto infruttuosamente per cinque anni le ricerche sul latitante, le cose però erano adesso improvvisamente cambiate. Finché era un uomo di Scorsello poteva contare sull’appoggio di centinaia di affiliati, ora doveva rivolgersi solo a soggetti a lui personalmente vicini ed estranei ad ambienti malavitosi. Si doveva bruciare il tempo. Manti aveva una pista precisa.

Tornarono alla macchina sforacchiata dai pallettoni, erano giunti scientifica e procuratori della Repubblica.

Con decisione e chiarezza Rustici espose quanto accaduto al procuratore capo Colace. Parlò genericamente di una missione delicata da svolgere e, insieme al solo Manti, salì in macchina.

«Mi spieghi…» gridò Colace, restando avvolto dalla nuvola di polvere della vettura che si allontanava.

 

La macchina si fermò poco dopo davanti alla casa dell’ispettore, i due scesero.

Teresa, la moglie di Manti, svegliata dal trambusto, trovò il marito in cucina che cercava di fare un caffè al suo superiore.

«In queste cose sei negato», disse. E con dolcezza lo cacciò dai fornelli.

Stavano soffiando sul liquido fumante quando comparve sulla porta il figlio maggiore dell’ispettore che andò ad accovacciarsi sulle ginocchia del padre. Non avevano finito il caffè che uno alla volta tutti gli altri figli si ritrovarono in cucina, a contendersi le coccole del genitore.

Dopo un po’ Manti li spedì tutti a letto con un movimento degli occhi, moglie compresa; si scusò con Rustici e si assentò per qualche minuto. Ricomparve indossando vestiti scuri e reggendo in mano un fucile automatico da caccia. Appoggiò il Benelli sul tavolo, inserì cinque cartucce caricate a pallettoni, quattro nel serbatoio e una in canna; infilò un po’ di munizioni in tasca e fu pronto.

«Bisogna agire ed essere come loro per poterli combattere», disse in macchina a Rustici.

Il viaggio durò una ventina di minuti. Arrivarono fuori città, in aperta campagna. Lasciarono l’auto in una via secondaria poco distante dalla strada asfaltata. Presero un sentiero che in mezz’ora li portò nei pressi di una villetta, un vecchio casolare ristrutturato di recente. Il buio era fitto, un paio di lampioncini illuminavano fiocamente solo la facciata dell’edificio; si distinguevano un’auto e un camion lì parcheggiati.

Rustici si era totalmente affidato al suo sottoposto, stava in silenzio senza chiedere spiegazioni. L’attesa durò ore.

Ogni tanto Manti faceva un giretto e ritornava muto. Dall’ultima perlustrazione tornò mentre qualche gallo impaziente già cantava a un’alba ancora

«Non siamo soli ad aspettare», si sentì sussurrare Rustici. La mano di Manti si chiuse sulla sua attraverso quel buio apparentemente impenetrabile. Rustici seguì docilmente l’ispettore che lo guidò in silenzio nella notte. Si fermarono in una posizione dalla quale si vedeva la bassa siepe che cingeva la facciata della casa. Manti indicò un punto là dietro e con difficoltà anche Rustici riuscì a intravedere una sagoma. L’ombra si mosse leggermente, si sollevò sulle ginocchia per osservare meglio l’interno del cortile, qualche secondo e si riabbassò tornando

Le dita di Manti mollarono la presa e Rustici rimase solo nel buio. L’ispettore si mosse da fantasma e dopo qualche minuto fu sopra l’ombra ai piedi della siepe.

Rustici si preparò a raggiungere il compagno ma un freddo metallico alla tempia, accompagnato da un profumo che non seppe definire, lo bloccò. La canna di una pistola puntata alla testa e una mano attaccata al collo della giacca lo portarono verso la posizione dell’ispettore.

Manti, che aveva disarmato l’uomo appostato a terra, l’aveva fatto stendere sulla pancia ed era pronto a stringergli le manette ai polsi, sentì Rustici avvicinarsi.

Un profumo intenso, avvolgente, che indovinò di muschio e terra bagnata, lo mise in allarme. Si girò di scatto e vide Rustici rigido, la pistola puntata al capo.

Non furono pronunciate parole. Manti abbassò il fucile e fece rialzare il suo ostaggio, che rapido prese posto dietro all’uomo incappucciato che minacciava Rustici. Un attimo e le due ombre si dileguarono nel buio ancora fitto.

I due poliziotti, frustrati, restarono muti, in piedi dietro la siepe. Con violenza Manti appoggiò una mano sulla spalla del suo capo e lo costrinse ad abbassarsi. Un’ombra alta, snella, leggermente claudicante, si avvicinò svelta alla casa ed entrò nel giardino. La luce leggera, proiettata dai lampioncini, fu sufficiente a illuminarla: Nino Caravita si stava dirigendo verso il camion.

L’azione fu rapidissima. In pochi secondi il sicario si ritrovò allo scoperto di fronte al Benelli di Manti, e alzò le mani.

Anche Rustici scavalcò andando a stringere le manette ai polsi del killer tenuto sotto tiro. Carovita era disarmato, la casa improvvisamente si animò, si accesero le luci all’interno e poco dopo l’uscio si aprì. Saro Venuto, compare di battesimo dell’uomo in manette, osservò la scena e riconobbe sbirri e figlioccio. Come nulla fosse disse che il caffè era sul fuoco e rientrò in casa uscendone quasi subito con un vassoio in mano.

Lo bevvero al fresco dell’alba oramai giunta. Venuto chiese il permesso di salutare il compare che subito dopo, in mezzo ai poliziotti, rassegnato, si diresse verso l’auto che l’avrebbe portato in galera.

Fine del film pensò Caravita. Suo padre era morto da tempo, suo fratello da qualche ora, e per lui si profilava una detenzione senza fine.

La sua vita si fermava in quell’alba carica di profumi.

 

Da “Zefira” Gioacchino Criaco