Cinema, Società, Storia by pillsadmin - tagged: , , , , , , , , , , , , ,

La cagna: tra cinema, Storia e società

La genesi de La cagna: dalla sceneggiatura di Flaiano al film di Ferreri

La cagna ha avuto una genesi piuttosto complessa e tormentata. Dopo essere stato lo sceneggiatore di alcuni capolavori del cinema italiano e in particolare di alcuni film di Federico Fellini – come Lo sceicco bianco (1952), I vitelloni (1953), La strada (1954), La dolce vita (1960), La notte (1961), 8 1/2 (1963) – Ennio Flaiano decise di debuttare alla regia, per assicurarsi che il senso della propria opera non fosse modificato e stravolto. A questo fine, tra il 1966 e il 1967 durante un soggiorno negli Stati Uniti, scrisse una sceneggiatura che nel gennaio 1968 depositò con il titolo About a Woman presso il Writers Guild West di Los Angeles. La sceneggiatura riguardava la crisi di creatività di uno scrittore italiano, residente a New York, e il richiamo irresistibile esercitato su di lui da una donna molto bella e sofisticata, che, nel tentativo di rendere i rapporti umani più semplici e spontanei, si trasformava in una cagna, liberando una vitalità animalesca che affascinava, ma al tempo stesso disorientava lo scrittore.

Flaiano scelse come protagonisti due attori che gli sembravano particolarmente adatti, Marcello Mastroianni, in base ai tre ultimi film sopra citati, e Faye Dunaway, in base a Bonnie and Clyde (1967). La Dunaway risultò indisponibile, le trattative con Carlo Ponti si protrassero a lungo e alla fine si arenarono soprattutto per il rifiuto del produttore di affidare la regia a Flaiano. Dopo la rottura con Ponti, Flaiano scelse come protagonista Cathérine Deneuve per averla ammirata in La syrène du Mississipi La mia droga si chiama Julie (1970). L’inconcludenza delle trattative con i produttori e un attacco cardiaco costrinsero Flaiano a rinunciare alla regia del film e ad affidare alla Deneuve l’incarico di cercare un nuovo regista.

Convinto che questa rinuncia avrebbe avuto come conseguenza la realizzazione di un film molto diverso da quello prefigurato nella propria sceneggiatura, Flaiano decise di dare a quest’ultima una forma autonoma, trasformandola nel romanzo Melampo, che pubblicò nel 1970 presso l’editore Rizzoli sotto il titolo Il gioco e il massacro, insieme a un altro racconto, Oh Bombay! Non si trattò però di una semplice trasposizione letteraria, perché Flaiano apportò due importanti modifiche: sia assumendo una posizione più distaccata e ironica rispetto ai risvolti autobiografici della vicenda narrata, sia indagando meglio le complesse radici del rapporto tra i due protagonisti. Queste modifiche sono state individuate in dettaglio da Aldo Tassone, mediante un raffronto accurato del romanzo con la sceneggiatura originaria del film.

Nel frattempo la Deneuve si rivolse per la regia a Roman Polansky, che nell’estate del 1970 la convocò nella sua casa di Londra insieme a Mastroianni. In quel momento Polansky era troppo impegnato nella trasposizione cinematografica del Macbeth per accettare l’incarico. Tuttavia l’incontro fu molto importante, perché in quell’occasione i due futuri interpreti protagonisti del film si conobbero per la prima volta e scoprirono di avere entrambi molto a cuore la realizzazione della sceneggiatura di Flaiano. La svolta decisiva avvenne infatti per opera loro: Mastroianni propose il nome di Marco Ferreri e la Deneuve contribuì a respingere i dubbi che Ferreri non fosse la persona adatta, a causa della sua fama di regista misogino.

L’assunzione della regia da parte di Ferreri comportò alcuni cambiamenti rilevanti. Anzitutto il nuovo regista non utilizzò la sceneggiatura, bensì il romanzo di Flaiano, che come si è visto presentava già due importanti modifiche. In secondo luogo, per stendere la nuova sceneggiatura Ferreri non si avvalse di Flaiano, ma di Jean-Claude Carrière: benché i titoli di testa dichiarino esplicitamente che il film è stato tratto da racconto Melampo e il nome del suo autore figuri tra gli sceneggiatori, tuttavia Ennio Flaiano non fu nemmeno interpellato per la rituale supervisione della sceneggiatura. In terzo luogo Ferreri si allontanò notevolmente anche dal racconto, per ragioni che Mastroianni presagì fin dall’inizio:

Mi rendevo conto che, data la sua visione della vita, una visione molto diversa da quella dello scrittore, il regista non avrebb emai tradotto in immagini la storia così come l’aveva immaginata Flaiano. Infatti per prima cosa Ferreri ambientò la storia, invece che in America, in un’isola mediterranea astratta, lunare. Rispetto al Melampo, La cagna è un film molto più amaro, cattivo, più moderno, in una parola un’opera apocalittico-esistenziale, secondo la concezione tipica di regista. Dopo essere stato uno dei più convinti partigiani del progetto di Flaiano, io mi sono venuto a trovare nella curiosa situazione di amare con pari trasporto anche il film che ne ha liberamente ricavato Ferreri. Il Melampo e La cagna sono in realtà due cose totalmente diverse. Dal progetto di Flaiano, rimasto a rigore inedito, si potrebbe realizzare un altro bellissimo film.

La prima differenza de La cagna rispetto al racconto di Flaiano riguardò la natura della crisi del protagonista. Nel racconto di Flaiano la crisi consiste in un inaridimento esistenziale e in una perdita di vitalità, provocati da un nevrotico eccesso di consapevolezza critica e di contemplazione estetica; nel film di Ferreri la crisi consiste invece nell’illusione di poter ritrovare un modo di vivere naturale e autosufficiente, al di fuori dei modelli culturali e delle nevrosi esistenziali della società contemporanea.

La seconda differenza riguardò l’ambientazione del film – non più un’enorme metropoli come New York, ma le piccole isole disabitate di Cavallo e di Lavezzi – che per Ferreri fu la naturale conseguenza del diverso modo di concepire la crisi dell’intellettuale.

Non mi è mai passato per la mente di ambientare il film in America […]. In quel periodo volevo fare un film su un tema ben preciso, il fals omito del ritorno alla natura dell’intellettuale.

Anche la metamorfosi della donna in una cagna assunse un significato molto diverso: in entrambi i casi nasce dall’esigenza di Liza di fuggire da un mondo fatuo, di false apparenze, ma in Melampo esprime la liberazione di una vitalistica animalità, mentre ne La cagna esprime la regressione a uno stato di passiva e completa sottomissione.

Quando Flaiano vide per la prima volta La cagna alla Mostra d’arte cinematografica di Venezia non riconobbe il proprio romanzo e avvertì in modo ancora più cocente la delusione e il risentimento per l’emarginazione dalla realizzazione del film:

Sono stato a vedere un film tratto da un mio racconto, e non l’ho riconosciuto.

Eppure intorno a me si parlava di diritti e di proprietà d’autore. Eccomi dunque decaduto dalla mia qualità di autore.

Uno stile cinematografico frammentario e rarefatto

Una prima caratteristica stilistica del film consiste nell’affrontare un soggetto molto forte – la metamorfosi di una donna in cagna e le dinamiche distruttive di un rapporto sado-masochistico – in modo molto frammentario. Tanto che un critico molto acuto come Adriano Aprà ha sottolineato di recente che «La narrazione è sfilacciata, ridotta a tante brevi sequenze, come fossero appunti, tracce di scrittura».

Senza dubbio il film mira a distruggere la continuità narrativa classica, basata su espliciti raccordi formali, tuttavia non è affatto un insieme di frammenti privi di un’unità di senso, poiché paradossalmente è proprio mediante bruschi stacchi tra sequenze, apparentemente autonome o addirittura in contrasto tra loro, che il film riesce a far emergere connessioni più sottili e profonde. Quest’aspetto è stato evidenziato con grande chiarezza da Stefania Parigi:

Lungo questa direzione il dispositivo della sceneggiatura perde progressivamente di peso. La concatenazione delle inquadrature non risponde ai principi di un ordine logico predeterminato. Ogni immagine tende ad essere autonoma dalle altre e contemporaneamente rimanda alle altre per vie diverse da quelle convenzionali. Tra le inquadrature si istituiscono analogie materiali, associazioni inconsce, allitterazioni cromatiche, legami d’atmosfera, transfert di senso, fili di sentimento più che nessi strutturali veri e propri.

Come vedremo, la difficoltà consiste nel riuscire a individuare queste connessioni, senza travalicare la loro frammentarietà con artificiose integrazioni narrative.

L’uso di uno stile cinematografico rarefatto e frammentario per rappresentare situazioni di apocalisse esistenziale è peraltro una caratteristica del cinema di Ferreri che ha cominciato a configurasi con Dillinger è morto, ma senza dubbio ne La cagna è molto accentuata.

In un’intervista a proposito de L’ultima donna (1976), Ferreri ha sottolineato con forza che il rifiuto della struttura narrativa classica nasce anzitutto da un primato dell’immagine rispetto alla sceneggiatura:

[…] la sceneggiatura è soltanto un momento, non ha maggiore importanza delle riprese e del montaggio. […] E poi, anche se c’è chi pensa che il sonoro sia stato la conquista più importante del cinema, io sono convinto invece che l’immagine continua a essere la cosa più importante. L’immagine esprime e libera a sua volta, nello spettatore, delle sensazioni. Ecco quello che mi interessa. […] anche gli psicanalisti studiano le immagini ma a loro interessa interpretarle. L’interpretazione io la lascio allo spettatore. Mi interessano le sensazioni che l’immagine provoca, liberare delle sensazioni… I critici, in genere, hanno sempre parlato bene dei miei film, ma si parla del soggetto, degli attori, si racconta il soggetto. L’analisi dell’immagine, di questi processi dell’immagine, non viene mai fatta. L’estetica, o la critica, è ancora umanistica, letteraria, «crociana» addirittura… .

La stessa idea è stata ribadita da Ferreri molti anni più tardi, con un riferimento specifico a La cagna:

Il mio cinema muove sempre da un’idea, da un’intuizione, che può anche non essere un fatto, che spesso proprio non è un fatto. Ci saranno state occasioni un po’ diverse, ma è sempre stato così. La cagna, per esempio, c’era l’occasione del libro di Flaiano, ma anche avendo avuto la buona volontà di cominciare con il libro, poi alla fine il film mi scappa diverso. Il film è un concatenarsi di momenti di cui uno tira l’altro. Io perlomeno non posso determinare un film in partenza come sarà. Questo vien mano a mano che il film si sviluppa. Melampo, il racconto di Flaiano, è stato cambiato moltissimo. Con Flaiano non avrei mai potuto andare d’accordo, per lui il cinema e la letteratura erano troppo sacri.

Secondo Stefania Parigi lo stile «frammentario» del cinema di Ferreri nasce però anche dal primato assegnato alla fisicità degli attori e dei luoghi:

Invece di chiedere all’attore di calarsi nei panni del personaggio, Ferreri costruisce il personaggio sulla base della realtà fisica e spirituale dell’attore. Per questo la scelta degli interpreti è più importante – lo ha dichiarato tante volte – della loro direzione durante le riprese, così come la selezione dei luoghi è prioritaria rispetto alle modalità stilistiche con cui verranno inquadrati. Ferreri tende a privilegiare sempre la materia rispetto alla forma dell’espressione. Non gli si richiede di utilizzare il proprio bagaglio professionale, di seguire una prestazione, bensì di portare sul set il suo corpo, la forza della sua presenza: lavorando innanzi tutto sulla fisicità, secondo il più tipico regime performativo, trasgredendo l’angusto mimetismo richiesto dai vincoli dell’interpretazione psicologica.

Una seconda caratteristica stilistica de La cagna è una rappresentazione «rarefatta». Anzitutto, pur affrontando problematiche tipiche della società contemporanea – la crisi dell’intellettuale e della coppia –, il film non le ambienta nel loro contesto sociale e culturale, ma in un luogo «astratto», un’isola deserta in cui non sembra esserci più traccia della società da cui provengono i due protagonisti. Le uniche «irruzioni» della «realtà esterna» sono l’arrivo della barca a vela con a bordo Liza, la breve incursione di Giorgio a Bonifacio per riaccompagnare Liza e fare provviste, la fuga e la cattura di un disertore della legione straniera, l’arrivo del figlio e soprattutto il soggiorno di Giorgio a Parigi.

Sia pure attribuendogli un’eccessiva valenza metalinguistica per quanto riguarda la «morte del cinema», Maurizio Grande ha individuato un altro aspetto dello stile «rarefatto» del film. Si tratta di un aspetto più specificatamente cinematografico, perché riguarda la capacità di Ferreri d’esprimere la crisi esistenziale dei protagonisti mediante un uso dei primi piani e dei campi lunghi, che nega e stravolge la loro tradizionale valenza semantica:

La dialettica delle negazioni rinvenuta a livello tematico ne La cagna ha, un suo, correlativo nella dialettica di primi piani/campi lunghi che si affermano e si negano,nel film. I primi piani negandosi nella esibizione eccessiva e nella sovrabbondanza. Una «sovrabbondanza» insistita sui personaggi e sulla implicita dissoluzione di un, mito illusorio dell’io esasperato nel suo darsi in pasto allo spettatore nelle forme effimere del cinema e di un film: in cui l’eccesso del primo piano si autosopprime come significante e come suggestione semantica, cancellando ed eludendo, nel contempo, i «referenti iconici» e psicologici delle figure dei personaggi fin troppo corrosi dal loro insistito apparire in primo piano. I campi lunghi, deserti, assolati; percorsi dalla materialità allarmante della presenza immota della roccia, della solarità, del vento, del vuoto e della solitudine come privazione e assenza; dissolti dunque da un tempo fin troppo uguale nella sua durata insignificante; e scavati nella mancanza dei movimenti di macchina che solo a tratti restituiscono un’ipotesi di abitabilità del «campo» e dell’universo della forma del cinema.

 

Il reale significato del nichilismo de La cagna

La cagna sembra fare esplicito riferimento a Dillinger è morto (1969), nel senso che inizia là dove quest’ultimo si era concluso e ne costituirebbe una tragica prosecuzione: dopo aver ucciso la moglie ed essere fuggito di casa, il protagonista di Dillinger è morto si imbarca su un vascello diretto a Tahiti, per realizzare un sogno di liberazione dell’individuo dai modelli e dai vincoli della società, mentre Giorgio e Liza abitano già da tempo su un’isola deserta, dove hanno sperimentato il fallimento di quella utopia. In altri termini La cagna esprimerebbe l’abbandono definitivo di ogni utopia della liberazione e sarebbe quindi un film dominato da un pessimismo ancora più cupo e radicale rispetto a Dillinger è morto.

Per mostrare a svolta nichilistica compiuta da La cagna Maurizio Grande ha messo a confronto in particolare i finali dei due film:

La vicend mitica di Giorgio e Lisa si concluderà sull’isola […]. Il film si conclude con la messa in scena dell’illusione del «volo», del «viaggio» liberatorio, della fuga interrotta. A differenza del designer di Dillinger è morto […] Giorgio e Liza non scompariranno nell’immaginario di un viaggio liberatorio. Resteranno ancorati al loro sogno di fuga, all’immobilità indifferente e ostile dell’isolamento del castello-prigione-isola. Resterà loro soltanto il gioco del mascheramento, la messa in scena del volo e della fuga.

In altri termini, a suo avviso, in Dillinger è morto il protagonista è ancora capace di desiderare realmente una fuga, sia pure verso un luogo nato da un immaginario manipolato; mentre Giorgio e Liza non hanno più alcundesiderio reale, ma fanno solo finta di averlo, mediante una messa in scena immaginaria.

Le osservazioni fatte da Maurizio Grande a proposito del nichilismo de La cagna sono indubbiamente acute e fondate, ma trascurano o sottovalutano un elemento molto importante: nonostante la stanchezza, la disillusione e la sconfitta, nei personaggi de La cagna s’intravede una sotterranea vitalità, che invece sembra completamente assente in Dillinger è morto e nella maggior parte dei film di Ferreri. Ciò è dovuto al fatto che ne La cagna Ferreri è riuscito a realizzare uno straordinario equilibrio tra distacco ironico e partecipazione emotiva, tra visione nichilistica e rappresentazione della vitalità repressa, che con pari forza e intensità ha saputo esprimere soltanto in Ciao, maschio (1978), ma non in film più famosi come appunto Dillinger è morto (1969), La grande abbuffata (1973) e L’ultima donna (1976), nonostante la loro grande originalità tematica e stilistica.

A mio avviso, si tratta di un aspetto molto rilevante, perché mostra che il nichilismo de La cagna ha un significato diverso da quello che gli è stato attribuito: ossia non mira a ripudiare l’utopia della liberazione, ma piuttosto a demistificare la straordinaria capacità della società contemporanea di utilizzare il mito dell’emancipazione e della liberazione degli individui, per proporre modelli di comportamento apparentemente «ribelli, trasgressivi e disinibiti», che in realtà servono a nascondere una drammatica perdita della capacità di vivere le pulsioni vitali, riducendole a inconsistenti rituali compensatori. Il nichilismo de La cagna non è però rivolto contro i falsi miti della liberazione solo per denunciare la perdita di vitalità che essi cercano di nascondere, ma anche per individuare ciò da cui è necessario partire per tentare di contrastarla.

Molti critici hanno compreso il primo aspetto, parlando a questo proposito di cinema «negativo», ossia di un cinema volto a far emergere l’esigenza di un cambiamento radicale mediante la rappresentazione delle convulsioni della società contemporanea per effetto d’insanabili contraddizioni. Pochi però hanno individuato e approfondito invece il secondo aspetto. Tra questi mi è parso particolarmente illuminante il saggio pubblicato da Stefania Parigi in occasione della retrospettiva dedicata a Marco Ferreri nel 1995 dalla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro:

I personaggi ferreriani che da Dillinger è morto in avanti tentano invano di sottrarsi alla società non riescono mai a ricomporre quell’armonia naturale che forse non è mai esistita ma che siamo portati a pensare ci sia stata rubata dalla civilizzazione. Se l’approdo di questi viaggi oltre la civiltà è lo stesso destino dimorte, questo non significa che l’ansia della partenza, la ricerca dell’armonia, non siano autentiche e non attraggano intimamente Ferreri. […]

Per quanto parodiata o negata, la spiritualità iscritta nei corpi, la spiritualità intesa come respiro della carne continua a rappresentare la ricerca profonda del cinema ferreriano. […]

Attraverso l’uomo fisiologico, agitato ossessivamente come motivo esistenziale e poetico, l’autore esprime l’ansia di un uomo aperto, non strutturato, fluido e indefinito come il mare davanti al quale si arrestano così spesso i personaggi dei suoi film. […]

C’è sempre nel corpo qualcosa che eccede la Storia, un residuo misterioso e pulsante su cui si possono ricostruire armonie distrutte e antiche leggerezze. Al corpo-prigione, al corpo-soma della Storia, si contrappone il corpo pneumatico, ossia il corpo libero, che per esistere ha annullato tutte le proprie consapevolezze ed è come disperso, evaporato sensualmente dentro la natura, ma anche armonizzato con il suo tragico destino naturale: il flusso e il riflusso del mare, la vita e la morte.

A conferma della propria interpretazione Stefania Parigi utilizza una dichiarazione rilasciata da Ferreri in un’intervista del 1974 per la rivista «Cineforum»:

Il corpo, dice Ferreri, è l’«unica, tragica realtà di questa vita». In esso sono iscritte le prigioni della Storia, è vero, quelle che conducono alla negazione autodistruttiva, ma da esso prorompe anche un «residuo» di non storia, una zona misteriosa e originaria. «Esiste qualcosa d’altro che la Storia. L’uomo è qualcosa di più che la storia, che la sua civiltà. Per il semplice fatto che questa civiltà è finita e che l’uomo non lo è […]. Io non voglio credere che il solo mezzo che l’uomo ha di conoscere se stesso sia di cercare fuori di sé, altrimenti non potrebbe che tirarne la conclusione che è già morto, come è morta la civiltà. Io non voglio identificarmi con il riflesso di me stesso, perché lo specchio è rotto. È più probabile che l’uomo vero, che è all’interno di ciascuno di noi, sia quello che incideva il bisonte a otto zampe nelle grotte di Altamira, o la scimmia pelosa che Flaxman scopre prima di morire, piuttosto che il concetto d’uomo che ci trasmette la civiltà, piuttosto che questi santi, navigatori e poeti di cui l’Italia sembra così ricca. I cani vivono, le scimmie vivono grazie alla loro animalità, sicuramente non grazie alla Storia. E non vedo perché, per l’uomo, non dovrebbe essere lo stesso».

Effettivamente la citazione di Ferreri mi pare chiarisca in modo inequivocabile come dietro il disperato nichilismo dei suoi film si celi in realtà un’enorme fiducia nell’irriducibile vitalità dell’uomo, tanto grande da sembrare persino ingenuamente utopistica. Pur facendo riferimento alla produzione cinematografica complessiva di Ferreri, le considerazioni di Stefania Parigi sul «corpo pneumatico» sono particolarmente utili per comprendere il vero significato del presunto nichilismo assoluto de La cagna.

 

Da “La dirompente illusione. Il cinema italiano e il Sessantotto 1965-1980