I limiti della questione morale
Giuridicizzazione ed eticizzazione della politica sono evidentemente processi collegati. Per una buona parte dell’opinione pubblica italiana proprio i magistrati rappresentano lo strumento attraverso il quale realizzare la pulizia morale della società e, in primo luogo, della politica. Questo in piena sintonia con quell’idea della giurisdizione come «controllo della virtù» che traspare anche da non pochi atti della magistratura: come ha osservato Luciano Violante, «non raramente, nei provvedimenti dell’autorità giudiziaria, si leggono giudizi morali, del tutto estranei alle competenze della giurisdizione, sui protagonisti del processo che abbiano un qualche ruolo pubblico».
La assoluta centralità politica della «questione morale» non è un fatto recente: si affermò pienamente vent’anni fa, all’epoca delle inchieste di Tangentopoli, che favorirono una ridefinizione dell’idea stessa di politica, sempre più interpretata nell’opinione comune come uno scontro tra onesti e disonesti, e considerata perciò come mezzo per sradicare dalla società idee e comportamenti moralmente riprovevoli. Se ciò avvenne, non fu soltanto per la comprensibile reazione a fenomeni corruttivi e comportamenti illeciti che solo con le inchieste di Mani pulite erano diventati di dominio pubblico nella loro effettiva estensione e sistematicità. A rendere in qualche modo definitiva la trasformazione dell’immagine della politica di cui si sta dicendo concorsero almeno tre altri fattori.
In primo luogo, va ricordata la svolta politica operata dal segretario del pci Enrico Berlinguer nel novembre 1980. Il repentino passaggio dalla strategia del compromesso storico a quella dell’«alternativa democratica», che allora il segretario decise quasi da solo, si fondava su un’idea della «questione morale» come «centro del problema italiano», principale punto di attacco contro i partiti governativi accusati di aver occupato lo Stato e di praticaremetodi di governo che lasciavano spazio ai ladri, ai corrotti, ai concussori. Politicamente la nuova linea, e la connessa esaltazione della «diversità» comunista rispetto a unmondo politico condannato in blocco, ponevano il pci su un «binario morto», come ha poi riconosciuto Piero Fassino, e lo rinchiudevano «in una autoconsolatoria riaffermazione di identità». Era una linea in cui, appunto, l’elemento moralistico-identitario faceva premio su qualunque valutazione politica, come scrisse in alcune annotazioni private uno stretto collaboratore di Berlinguer, Alessandro Natta. Letta la famosa intervista rilasciata nel luglio 1981 dal segretario del suo partito a Eugenio Scalfari, ne lamentava «il tono […] moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri». E registrava il rischio che la critica berlingueriana alla degenerazione dei partiti potesse «alimentare una intransigenza morale, una denuncia radicale ma sterile!». In queste critiche al moralismo berlingueriano, e in quelle più sfumate ma pubbliche formulate all’epoca da Giorgio Napolitano, affiorava un elemento di realismo politico che a quei dirigenti del pci veniva sia dal pensiero di Marx sia dalla stessa spregiudicatezza politica della tradizione comunista. La svolta politico-moralistica di Berlinguer finiva perciò col rappresentare anche una rottura con quel realismo, magari solo parziale36, che era proprio della cultura comunista. A questo proposito, non è forse un caso che, da parte sua, Berlinguer mostrasse una certa predilezione per collaboratori provenienti, come Antonio Tatò, dal mondo cattolico, che avevano portato nella loromilitanza comunista una propensione alla criticamoralistica del capitalismo e della società dei consumi.
Negli anni Ottanta la centralità della «questione morale» e il riferimento alla diversità dei comunisti rispetto a un mondo politico corrotto alimentarono la dura critica del pci nei confronti del segretario socialista Bettino Craxi. Soprattutto, dovevano acquisire un nuovo valore dopo il crollo del Muro di Berlino, la nascita del pds, l’esplosione delle inchieste di Mani pulite (che, si noti, riprendevano di fatto lo slogan con cui il pci berlingueriano aveva vinto le elezioni amministrative del 1975)39. Quella centralità rappresentava infatti il miglior viatico per un partito che, da un lato, era stato privato della sua tradizione di riferimento e, almeno in parte, del suo stesso passato dalla dissoluzione dei regimi comunisti; e che, dall’altro, si trovava ora di fronte al montare dello scandalo di Tangentopoli e alla crescente domanda di onestà e moralità che saliva dall’opinione pubblica. Fin dalle sue origini il pci aveva trovato un essenziale fattore di coesione nell’ideologia: in concreto, nel peculiare italo-marxismo della tradizione gramsciano-togliattiana. Costretti a rinunciarvi per il crollo del comunismo a livello globale, quanti erano appartenuti a quella tradizione trovarono nel richiamo alla «questione morale» e nella torsione moralistico-giudiziaria della politica una sorta di ideologia sostitutiva. Fu allora, non a caso, che gli esponenti della sinistra ex comunista cominciarono a richiamarsi all’azionismo, cioè a una tradizione politica che nella sua breve esistenza storica (e ancor più nella mitizzazione che ne era stata fatta successivamente) aveva considerato l’intransigenza morale come il fulcro dell’azione politica. Comunque il partito che, con le sue successive denominazioni, proveniva dalla tradizione comunista si sarebbe, da allora, pressoché identificato con la eticizzazione e giuridicizzazione della politica legata alle inchieste contro la corruzione. Fino al punto di schierarsi regolarmente, nel conflitto che oppone da anni politica emagistratura, con quest’ultima. E fino al punto di giustificare l’opposizione a Berlusconi, secondo quel che ho già ricordato, nei termini di una radicale e ultimativa contrapposizione tra l’Italia degli onesti e l’Italia dei disonesti. Si trattava di una contrapposizione che, per un verso, riproponeva implicitamente il mito berlingueriano della diversità comunista; per l’altro, favoriva una radicale mutazione nella cultura della sinistra ex comunista – dei suoi militanti ed elettori,ma anche delle nuove leve di dirigenti e parlamentari –, una mutazione che la allontanava sensibilmente dalla matrice comunista-togliattiana. Proprio questa mutazione culturale, del resto, avrebbe facilitato l’incontro con gli ex democristiani di sinistra avvenuto nel 2007 con la nascita del Partito democratico.
Un secondo elemento che favorì il nuovo modo di concepire il giudizio politico fu il ruolo acquisito dagli intellettuali come ispiratori di una forma di radicalismo etico-giudiziario, spesso in grado di tenere sotto scacco le formazioni politiche della sinistra (si ricordi la grande eco avuta dal famoso j’accuse di Nanni Moretti, nel 2002, contro i dirigenti dell’Ulivo accusati di sapere solo perdere). Nelle sue punte estreme, un tale radicalismo vedeva nelle inchieste contro la corruzione lo strumento per riformare la cultura profonda del paese: «Mani pulite – scriverà Paolo Flores d’Arcais a dieci anni dall’esplosione di Tangentopoli – è […] l’occasione straordinaria e impensata di recuperare il deficit storico di arretratezza civile di un paese che non ha conosciuto né Riforma religiosa né Rivoluzione borghese, ma che può ora, con slancio unanime, sostituire la Grundnorm della legalità presa sul serio alla triste antropologia del familismo amorale».
La novità non stava di per sé nell’impegno politico degli intellettuali, che in Italia è sempre stato presente con una notevole intensità; né nella radicalità delle loro critiche, visto che nel corso dell’intera storia postunitaria quell’impegno si è di frequente caratterizzato per le posizioni estreme, che attribuivano «un ruolo eticamente rigenerativo e politicamente demiurgico alle minoranze intellettuali». Nei primi decenni della Repubblica, però, il Partito comunista era stato in grado di controllare comportamenti e prese di posizione dei molti intellettuali simpatizzanti; e quando, dopo il Sessantotto, era emersa una intellighenzia su posizioni di estrema sinistra e in forte polemica con il pci, quest’ultimo l’aveva saputa criticare aspramente. Ora invece, a partire dagli anni Novanta, il quadro dei reciproci rapporti si presentava completamente diverso. La sinistra ex comunista si era salvata dal crollo dei regimi dell’Est e dal generale discredito che aveva colpito la propria tradizione politica (un discredito che, per il nuovo spirito dei tempi, era obbligata essa stessa a condividere); era stata toccata solo marginalmente dalle inchieste giudiziarie; ma disponeva di una forza elettorale decisamente ridotta rispetto a qualche anno prima. In queste condizioni subiva l’iniziativa degli intellettuali «indignati», come a un certo punto si definirono, che oltretutto avevano un seguito notevole presso la sua stessa base. Non poteva che subirne l’iniziativa anche, e forse soprattutto, perché militanti ed elettori ex comunisti – attraverso l’eredità, e anzi il vero e proprio mito, di Berlinguer – avevano introiettato essi stessi la torsione in chiave eticistico-giudiziaria della politica che animava tanti scrittori, registi, attori, giornalisti di sinistra. A quest’ultimo riguardo si è parlato, anzi, di una sinistra politica in gran parte eterodiretta dai settori del mondo dell’informazione che più avevano abbracciato il radicalismo etico-giudiziario.
Naturalmente il radicalismo degli intellettuali, di alcuni media e più in generale del «popolo di sinistra» (come si cominciò allora a dire) riceveva sempre nuovo alimento dalla semplice presenza in politica di Silvio Berlusconi, in considerazione sia delle sue disavventure giudiziarie (e del tentativo di affrontarle attraverso cosiddette leggi ad personam) sia del fatto che il leader del centrodestra appariva come la massima personificazione di valori distanti anni luce da quelli che la sinistra rappresentava o riteneva di rappresentare. Per di più quel radicalismo – a causa della sua stessa semplicistica idea della politica incentrata sulla dimensione etico-giudiziaria – doveva rivelarsi del tutto a misura della nuova «intellettualità di massa» dei social network e del suo spesso aggressivo schematismo (finendo da ultimo, per questa via, con l’approdare anche nel Movimento 5 Stelle).
Non meno importante fu un terzo elemento che ha a che fare con l’avversione generalizzata per i politici di professione; un’avversione che da vent’anni in qua non è mai scemata, per ragioni che però non dipendono solo dal legittimo sdegno verso chi utilizza cariche e funzioni pubbliche a fini di mero tornaconto personale. Una serie infinita di indagini, rivelazioni, testimonianze ha confermato come comportamenti di tipo affaristico-clientelare, incentrati sullo sfruttamento a fini privati di risorse pubbliche, non siano un elemento collaterale nell’attività del nostro ceto politico (fatte salve, ovviamente, le molte eccezioni che pure esistono). Di quella attività rappresentano invece, molto spesso, il centro e lo scopo principali secondo schemi che – come nel caso delle spese dei consiglieri di varie regioni italiane – sembrano avere un forte carattere bipartisan. Tuttavia, per quanto dotata di sicuro fondamento, la condanna in blocco di una «casta» politica corrotta – per riprendere il titolo di un libro-inchiesta che superò rapidamente il milione di copie vendute – ha rappresentato anche, per moltissimi italiani, un modo per distogliere l’attenzione da comportamenti di illegalità diffusa che coinvolgevano (e coinvolgono) un’ampia parte del paese. La propensione a non rispettare leggi e regole costituisce un dato strutturale della società italiana, certificato ad esempio dall’elevato tasso di evasione fiscale, dal fenomeno di un abusivismo edilizio di massa, dalla diffusa accettazione della microcorruzione come dato inevitabile. Ebbene, il sostegno entusiasta tributato ai magistrati di Mani pulite e la forte ostilità contro un mondo politico condannato in blocco come corrotto servirono anche ad accreditare un’idea tanto consolatoria quanto infondata: l’idea che il malaffare e l’illegalità fossero esclusivo appannaggio dei partiti e di quella parte del mondo economico che prosperava soprattutto grazie ai rapporti con la politica. In quest’ottica, spettava a una «società civile» invece sana appoggiare imagistrati nella loro opera di pulizia.
Che si potesse cambiare nel profondo una società segnata dalla scarsa propensione alla legalità attraverso una rivoluzione per procura (nel doppio significato dell’espressione: lasciando il compito ad altri e affidandosi ad alcune procure) era evidentemente un’illusione. Peraltro si trattava di un’illusione destinata a ripresentarsi anche oggi nella polemica contro l’intera classe politica, almeno quando questa polemica finisce col risparmiare i privilegi delle piccole e grandi «corporazioni» italiane e il fenomeno della microillegalità diffusa. La condanna della «casta», la torsione in chiave moralistica della politica che a essa si accompagnava, sono dunque servite anche a non interrogarsi su comportamenti che interessano un numero di italiani ben più numeroso dei politici di professione. In tal modo, più che migliorare il paese – nei suoi comportamenti e valori di riferimento – hanno contribuito di fatto a occultare il deficit di etica sia pubblica sia privata di cui esso soffre.
Tratto dal libro di Giovanni Belardelli, La catastrofe della politica nell’Italia contemporanea, Rubbettino