Don Sturzo e la corruzione
Sappiamo che don Luigi Sturzo ha conseguito la laurea in filosofia e in teologia, tuttavia nel corso della sua vita ha mostrato doti non comuni come economista, amministratore pubblico e giurista, ricevendone riconoscimento nella nomina a componente dell’alta corte di giustizia per la regione siciliana. Rientra in questo profilo la capacità di don Sturzo nell’elaborare forme di contrasto alla corruzione morale, politica e amministrativa.
La migliore definizione che lo statista siciliano riesce a dare della corruzione è contenuta in Politica e morale del 1938, quando afferma: «Un altro dei fenomeni preoccupanti dei rapporti fra il cittadino e l’amministrazione pubblica, è quello della richiesta o offerta di compensi (spesso amezzo di intermediari) per ottenere dei servizi dovuti, dei favori legittimi, o caso più diffuso, dei favori illegittimi» [PM, p. 220]. Si può notare come Sturzo, nel fare riferimento anche alla richiesta da parte dell’amministratore pubblico, introduca un concetto riferibile a ciò che è concussione.Un’altra indicazione lasciataci dal sacerdote calatino ci fa comprendere come egli leghi l’aspetto del dover esercitare correttamente la funzione pubblica con il timore per le suggestioni dovute al denaro di facile guadagno. Infatti, al numero ventisette delle sue Note e suggerimenti di politica pratica, don Luigi consiglia a chi ne subisse l’eccessivo fascino di non fare politica e tanto meno di aspirare ai posti di governo, perché «l’amore del denaro lo condurrà a mancare gravemente ai propri doveri» [PM, p. 238].
Delle battaglie di donLuigi Sturzo siamo soliti ricordare quelle contro le «male bestie» [cfr.PQAVI, pp. 193 e ss], cioè lo statalismo, la partitocrazia e l’abuso del denaro pubblico; così qualche studioso del pensiero sturziano arriva a sostenere che questa visione sia il frutto del contatto dello Sturzo esiliato con le moderne democrazie inglesi e americane di quel tempo.Tuttavia, seguendo un esame cronologico del pensiero del politico siciliano si scopre che la battaglia per la moralità pubblica e privata, per una gestione legittima e trasparente del potere, nasce dallo Sturzo municipalista, quello che pro-sindaco di Caltagirone si batte contro la corruzione, il malaffare, i potentati politici e i parassiti mafiosi.
Negli scritti di don Sturzo c’è un riferimento temporale relativo alle elezioni comunali di Caltagirone del 1899. Il sacerdote ricorda che per combattere il controverso metodo politico dei radicali e dei liberali, che si alternavano storicamente al governo municipale, lanciò una campagna di pubblica moralizzazione. Don Sturzo intendeva combattere la corruzione elettorale e quella amministrativa e politica, con la quale si amministrava Caltagirone. Il giovane prete ideò la sua prima campagna elettorale con queste parole: «Io non vi darò nessun compenso per il voto, né vi prometto alcun che di personale, tranne che una buona amministrazione quando avrò conquistata la maggioranza. Chi mi vuole, mi dia il voto; chi non mi vuole, vota per gli altri» [PQA VI, p. 112]. La politica sturziana sarà così sempre legata alla trasparenza e la sua azione amministrativa imparziale e incentrata sulla buona amministrazione. Secondo don Sturzo i risultati di questo nuovo metodo politico furono tali che quasi tutti gli artigiani di Caltagirone e molti dei contadini decisero di votare per lui e la sua lista municipale, confermandogli la fiducia sia per il quinquennio di opposizione, sia per i quindici anni in cui fu pro-sindaco. La stessa formula politica e amministrativa fu la base sulla quale don Sturzo costituì il partito municipale e poi, nel 1919, lo stesso Partito Popolare Italiano; una scelta coraggiosa che il sacerdote calatino commenta così: «Il 1919 lasciai Caltagirone per fondare il partito popolare: la stessa formula mi servì per la nuova fatica. Cito l’esperienza personale per provare con i fatti essere possibile vincere le battaglie sia contro la corruzione elettorale sia contro la corruzione amministrativa e politica» [PQA VI, p. 112].
Sturzo mostra in tal modo consapevolezza dell’antico male della corruzione elettorale come modo di conquista del voto, della corruttela quale sistema con cui amministrare il potere pubblico, così oltre le campagne di moralizzazione nelle piazze, nelle aule comunali, sui giornali, il sacerdote calatino decide di darne una spiegazione sociale ai calatini. In quel tempo il teatro era considerato la forma più efficace di diffusione della conoscenza tra il popolo. Così don Sturzo nel teatro Silvio Pellico, da lui fondato a Caltagirone, per rappresentare l’essenza di un teatro cattolico di propaganda e di educazione porta in scena il dramma La mafia. Un componimento scritto da don Sturzo e recitato a Caltagirone il 25 febbraio del 1900. C’è nel testo un aspro confronto tra il cavaliere Ambrosetti, il buono che sarà ucciso e l’onorevole di San Baronio, il suo capo corrente che, tradendolo, preferirà il successo politico a ogni costo e per qualsiasi costo, rispetto all’idea della politica come atto di amore verso il prossimo.
Don Sturzo fa lamentare l’Ambrosetti con l’onorevole di San Baronio circa il comportamento immorale, illegittimo e illecito del commendatore Palica, candidato sindaco alle elezioni comunali di un piccolo centro della Sicilia interna di quel tempo, denunciando che questi usa il partito per fini privati e il potere per arricchirsi. L’onesto politico ne chiede l’allontanamento dal partito. Le parole dell’Ambrosetti rispondono alle battaglie sturziane contro le «male bestie»; sono quelle che in ogni tempo vorremmo sentire pronunciare da corretti uomini politici che agiscono per il bene comune: «Oggi forte convinzione, […] determinata dalla corruzione che invade il partito per cagione del comm[endator] Palica e di parecchi suoi amici; mi sforzo a dirle che se vogliamo che davvero il partito serva alla patria, e non viceversa, prima e sopra qualsiasi ambizione personale, bisogna radicalmente riformare l’organismo, ed escludere il comm[endator] Palica dall’Amministrazione comunale. […] [Il Palica] non ha dato prove di retta amministrazione; si fa sopraffare dagli affaristi che in ogni partito non mancano, cede alle influenze personali e alle amicizie, mira a sollevare chi lo corteggia, non badando alla moralità delle persone, lascia che negli appalti speculano le sanguisughe e le anime dannate del partito» [LM, pp. 12-13].
La questione della retta amministrazione è sempre oggetto delle battaglie di Sturzo; un altro episodio noto risale all’estate del 1905, quando in qualità di consigliere comunale e di commissario prefettizio, denuncia un meccanismo di corruzione nell’assegnazione dell’appalto comunale per l’illuminazione pubblica di Caltagirone. Le sue documentate analisi in sede di consiglio comunale, in seduta straordinaria e la denuncia al procuratore del re, avranno come effetto la vittoria del partito cattolico municipale sturziano alle successive elezioni comunali, portando don Sturzo alla carica di pro-sindaco, fino al 1920.
Altro episodio amministrativo che mette in luce la lotta di Luigi Sturzo al malaffare e alla corruzione è lo scioglimento del corpo delle guardie municipali del comune di Caltagirone che, mediante un accurato sistema di corruttela, era entrato in affari con la mafia dei cosiddetti “caprari”, spadroneggiante nelle campagne attorno alla cittadina calatina. Siamo nel primo anno di sindacatura di don Sturzo che, dopo aver nominato una commissione di inchiesta presieduta da un generale dei Carabinieri per indagare sulle malefatte del corpo dei vigili di Caltagirone, dispone il licenziamento del loro comandante, nonché ordina lo scioglimento dell’intero Corpo delle guardie municipali, in quanto nella loro azione di corruttela avevano «approfittato degli approfittatori» e erano diventati una forza autonoma che gestiva il proprio potere in modo irresponsabile e fuori da ogni controllo di legalità.Don Sturzo motiva questa severa azione con la necessità di liberarsi di uno strumento corrotto che osteggiava qualsiasi retta e trasparente politica di amministrazione della cosa pubblica.
Don Sturzo nella palestra della democrazia municipale di Caltagirone fa nascere quelli che qualche studioso sturziano ha definito i “dieci comandamenti” per ben amministrare la cosa pubblica; omeglio, secondo le stesse parole dello statista calatino: non farsi prendere la mano dalla burocrazia locale; rispettare la burocrazia, ma costringerla a rispettare gli orari, il servizio e il pubblico; nulla domandare agli impiegati che non sia secondo la legge; non servirsi degli impiegati per fare favoritismi o per evadere le disposizioni legislative o regolamentari; mantenere con gli impiegati la regolarità e l’equità per le scelte e le promozioni; il contatto con i cittadini, specie se meno favoriti e più bisognosi, deve essere costante, premuroso, giusto; per il sindaco e gli assessori i cittadini debbono essere tutti uguali nel rispetto dei diritti, tutti uguali nel fare osservare i doveri civici; il denaro pubblico sia considerato sacro; non amministrare con molta larghezza; avere il coraggio di mettere fuori dalla porta i parassiti, i ricattatori e i trafficanti. L’introduzione di questi principi sturziani consentono di rendere la vita amministrativa accessibile ai cittadini, il municipio trasparente come il cristallo, progettare una politica per il bene comune. Era la reazione, sociologica e politica, di Sturzo alla Sicilia dominata fino a quel momento dal partito affarista «alla cui base sta una coalizione di interessi personali, intesi a sfruttare i municipi; sulla cui vetta torreggia l’interesse politico, anch’esso personale, sfruttante tutte le energie paesane, incatenando e aggiogando i nostri comuni, ai favori e ai soprusi dei ministeri. È un turpe mercato, senza idealità, che in una corsa e rincorsa al potere, sbalzata in vece alterna dalle maggioranze alle minoranze, rovina i municipi, dissangua il popolo, oppresso dalle tasse, e mantiene il tenore della vita collettiva delle città in grado inferiore allo sviluppo della civiltà presente» [RNZ, p. 117].
Non meraviglia la forte volontà di don Sturzo nel combattere contro questa immonda fungaia della corruzione come sistema che consente il perpetuarsi di vincoli, di cordate e compromessi anche elettorali. Già, perché il sistema di corruttela per essere efficiente deve avere una sua stabilità che può essere assecondata soltanto da una continuità amministrativa e gestionale. Ecco che si affaccia il dramma della corruzione elettorale dove, a dire del sociologo calatino, la colpa in fondo «è del corpo elettorale, non educato, che baratta così nobile ufficio col vile e incosciente di appoggiare il favorito o il prepotente; è del popolo, che si dimentica la ragione del suo diritto, per asservire sé e la cosa pubblica alle ambizioni, alle pretese, agl’interessi personali; e se di questo passo in tutti i comuni d’Italia si andrà allo sfacelo, la colpa è degl’italiani, che ancora bisogna fare!» [RNZ, pp. 315-316]. Insomma, è facile comprendere come il cittadino tenuto in uno stato costante di bisogno economico, sociale e culturale, si rivolga per necessità al potente di turno non potendo in alcunmodoazionare i suoi diritti presso gli uffici pubblici, tenuti in mano da vincoli burocratici e consorterie di partiti e di affari. Il cittadino diviene cliente del potente di turno che, da dominus romano, ne dispone liberamente elargendogli, a piacimento e discrezione, i suoi favori. Non c’è da stupirsi se lo stesso don Sturzo riflettendo sul caso di una povera pensionata che chiede di ottenere la pensione di guerra evidenzi come la donna sappia bene che accettando la proposta della intermediazione illecita per corrompere il funzionario di turno, essa compia un fatto immorale e illecito; ma con sommo realismo evidenzia come questa signora non abbia scelta, benché abbia un diritto, sia in fondo il soggetto più debole rispetto al mostro di una burocrazia tentacolare e fuori da ogni controllo. La donna paga per ottenere un rapido disbrigo della pratica che altrimenti sarebbe sempre l’ultima, fuori posto o mancante di qualche documento; paga per evitare questo prolungarsi dello stato di sofferenza materiale e psicologico, violando però il suo senso morale e l’ordine legale. Don Sturzo non la giustifica, anzi ritiene che faccia molto male; soprattutto perché, secondo lo statista calatino, ripetendo questo caso per mille e centomila si finirebbe, così com’è stato, per invadere tutti gli uffici pubblici di richieste o offerta di compensi (spesso a mezzo di intermediari) per ottenere servizi dovuti, favori legittimi, o caso più diffuso, favori illegittimi. Anzi, esprime un giudizio allarmato sul rischio di una illegalità dilagante nella pubblica amministrazione affermando che «questo caso delle pensioni, può essere ripetuto per qualsiasi certificato, per qualsiasi affare piccolo o grande che sia. Oggi che lo stato è divenuto gestore diretto o indiretto di una serie interminabile di enti, l’occasione di traffici indebiti è centuplicata» [PM, p. 220].
Nasce così la paura di Sturzo che lo Stato pesante, allargato a dismisura, che agisce con una infinità di competenze non proprie, in ogni campodella vita sociale, economica, culturale ed etica della nazione finisca per diventare ostaggio del sistema del malaffare, delle corruttele e dei parassiti. È questa la base giuridica, economica e morale, sulla quale nasce la lotta politica e culturale di don Sturzo contro lo statalismo. Questa lotta diviene più forte negli anni Cinquanta, ma appartiene ad una unica strategia, che pone al centro l’ordine morale e i principi cristiani dell’amore per il prossimo, come criterio differenziatore di chi fa politica a favore della comunità e di chi cura soltanto il proprio interesse personale, di gruppo, di corrente, di partito. Francesco Malgeri ricorda: «È indubbio che Sturzo, in questi anni, si muova contro corrente, respingendo con forza la crescente tendenza a dare spazio, nella vita economica nazionale, agli enti di Stato, che appaiono ai suoi occhi non solo l’anticamera di un regime socialista, ma soprattutto focolai di possibile corruzione politica e di sottogoverno»[Malgeri (2002), p. 287].
Infatti, il 3 novembre del 1946, Sturzo, appena rientrato dall’esilio, pubblica sul giornale «L’Italia» un’intervista dal titolo: Moralizziamo la vita pubblica. Egli, richiamando gli scandali americani più famosi, come quello della città di Chicago o di Tammany Hall di NewYork, afferma che il male di una vita pubblica moralmente inquinata non è cosa nuova nella storia del mondo. Alla base di tale infezione resta il triste agire dell’egoismo umano. C’è però il rischio, a dire del sociologo siciliano, che il maggior accentramento di potere in poche mani e una larga distribuzione di danaro nelle molteplici amministrazioni pubbliche (Stato, enti statali e parastatali, enti locali e oggi potremmo aggiungere le società di capitali a partecipazione pubblica, le società miste, le strutture centralistiche con poteri speciali, le piccole Iri comunali) possa finire per aggravare la tentazione di agire immoralmente, illegalmente, di arricchirsi mediante la corruzione.
Ecco che per don Sturzo è necessario il controllo delle pubbliche amministrazioni, in modo tecnico e giuridico, o attraverso la supervisione del parlamento; una condizione non sufficiente, però, per contrastare gli abusi del potere pubblico. Occorre unire un’efficace vigilanza dell’opinione pubblica e una pressione popolare per la moralità amministrativa e politica che possa scongiurare le tentazioni delle corruzioni.
L’esperienza americana di Sturzo ne esalta il grado elevato di elaborazione concettuale soprattutto quanto al temuto pericolo che il popolo venga controllato nella formazione della sua libera opinione e reso insensibile al dilagare dell’immoralità nell’amministrazione dello Stato. Egli, ad appena tre mesi dal suo rientro in Italia, anticipa le strategie di coloro che hanno il controllo dell’opinione pubblica realizzata anche per mezzo dei partiti, delle cooperative, dei sindacati, degli enti assistenziali e che «partecipano alla corruzione dei rappresentanti politici, o si preparano a parteciparvi con l’alternarsi dei partiti» [PQA II, p. 332]; ma il sacerdote calatino denuncia anche la capacità dei governi che possiedono tutto il potere e tutti i mezzi di opinione pubblica di rendere il popolo indifferente rispetto al ripetersi e dilagare dell’immoralità nell’amministrazione dello Stato.
Tre anni dopo, il 5 novembre del 1949, sul giornale «La Via» don Sturzo pubblica un nuovo articolo, nuovamente dal titolo “Moralizziamo la vita pubblica” dove fa il punto sulla situazione italiana e sul dilagare di incarichi in aziende pubbliche per uomini di governo, politici e funzionari pubblici. Emerge in modo chiaro la piaga di ciò che oggi chiamiamo il conflitto di interessi; cioè la necessità di distinguere la posizione di chi deve controllare cosa fanno enti, aziende e società, finanziate con danaro pubblico, rispetto a chi li amministra. Lo statista calatino attacca il sistema dei «controllati controllori» [cfr.PQA II, pp. 306 e ss.], in cui evidenzia il rischio di accordi illeciti e immorali agevolati da questi doppi incarichi, giungendone a chiedere un espresso divieto di legge. Sturzo dà esempio di questo conflitto di interessi ripercorrendo uno scambio di battute con un ignoto imprenditore del tempo: «Giorni fa il capo di un’azienda dove lo stato ha una certa partecipazione azionaria, mi diceva che era un bene che nel consiglio di amministrazione ci fosse un deputato, per difendere presso i ministeri competenti e presso la camera gli interessi dell’azienda. Mi fu spontanea la risposta che egli non aveva contato l’utilità di averci anche dei funzionari dello stato per combinare i provvedimenti vantaggiosi per l’ente con la tecnica (in uso) del minore chiasso e il più efficiente risultato» [PQAII, p. 334]. In questo quadro, il fondatore del Partito Popolare Italiano rivendica la necessità che ogni soggetto che riceve, in qualsiasi forma, danari pubblici sia obbligato a fornire al parlamento i propri bilanci, i conti reali e trasparenti da poter esaminare e discutere, perché si possa rompere ciò che egli chiama il sistema di combutta tra il funzionario e il politicante a favore delle aziende e a danno dello Stato.
Don Sturzo si rivolge anche alla Democrazia Cristiana chiedendole di contrastare la logica dell’uomo indispensabile su cui concentrare una molteplicità di incarichi, impossibile da adempiere tutti con diligenza, nonché di introdurre un divieto senza eccezione per i suoi uomini di partito di assumere cariche amministrative negli enti e società che abbiano finanziamenti, contributi, agevolazioni o altre forme di elargizione di danaro pubblico, che possano far sorgere il pericolo del conflitto di interessi, secondo il sistema da lui denunciato dei controllati controllori.
Tutti questi ragionamenti sturziani per difendere la moralità pubblica, per rompere i legami di interessi in conflitto e i sistemi di corruttela, sfoceranno nell’attacco al centro di potere costituito dal democristiano Enrico Mattei, creatore dell’Eni, che, a dire di Sturzo, avrebbe usato il denaro pubblico dell’ente di Stato per finanziare una corrente della Dc e per manipolare l’opinione pubblica attraverso giornali e riviste. Dichiarazioni che fecero scalpore e che ancora oggi sono oggetto di amara riflessione. Ricorda Massimo Teodori che Mattei era solito affermare che si serviva dei partiti come dei taxi; che all’interno della Dc finanziava una sua corrente politica denominata la Base; che avrebbe distribuito contributi a tutto l’arco politico e giornalistico, dall’estrema destra del «Candido» e «Lo Specchio» all’estrema sinistra del Psiup. È assai rilevante l’accusa mossa da questi controMattei che «attraverso la corruzione riuscì a condurre fino al 1962 una sua politica estera e a pesare sulla scena italiana fuori da ogni controllo democratico, invertendo la dipendenza pubblica tra baroni pubblici e rappresentanti politici» [Teodori (1999), p. 95].
Su queste basi logiche e di esperienza politica e amministrativa, il senatore a vita Luigi Sturzo presenta al senato della Repubblica, il 16 settembre del 1958, un disegno di legge circa le Disposizioni riguardanti i partiti politici e i candidati alle elezioni politiche e amministrative [cfr. SG, pp. 364 e ss], con il quale mira a obbligare i partiti a depositare in tribunale lo statuto e i nominativi dei dirigenti responsabili, individuare dei requisiti minimi di personalità giuridica, strutturare degli obblighi di rendicontazione finanziaria, vietare alcune forme di finanziamenti da soggetti pubblici, introdurre la pubblicità degli elenchi dei contribuenti, imporre la intestazione al partito dei beni immobili e la nominatività dei titoli posseduti, introdurre dei limiti alle spese elettorali, un rendiconto da parte dei candidati, anche se non eletti, dei contributi ricevuti e delle spese sopportate, infine una serie di sanzioni penali per la violazione degli obblighi imposti. Nella relazione al disegno di legge don Sturzo contesta al sistema nazionale dei partiti democratici tutti i rischi derivanti dai finanziamenti illeciti, alcuni dei quali provenienti da potenze estere, il sistema di scambi di favori tra candidati e finanziatori, le logiche di arricchimento legate alla corruzione: «Il problema è più largo di quel che non sia la spesa elettorale; noi abbiamo oramai una struttura partitica le cui spese aumentano di anno in anno in maniera tale da superare ogni immaginazione.
Tali somme possono venire da fonti impure; non sono mai libere e spontanee offerte di soci e di simpatizzanti. […] Che i finanziamenti siano dati da stranieri, da industriali italiani, ovvero, ancora peggio, da enti pubblici, senza iscrizione specifica nei registri di entrata e uscita, o derivino da percentuali in affari ben combinati (e non sempre puliti), è il segreto che ne rende sospetta la fonte, anche se non siano state violate le leggi morali e neppure quelle che regolano l’amministrazione pubblica. Il dubbio sui finanziamenti dei partiti si riverbera su quelli dei candidati; e con molta maggiore evidenza se si tratta di persone notoriamente di modesta fortuna, professionisti di provincia, giovani che ancora debbono trovare una sistemazione familiare conveniente, impiegati a meno di centomila lire mensili, e così di seguito. Alla fine delle elezioni abbiamo sentito notizie sbalorditive, che fanno variare da dieci a duecento milioni le spese di campagna di singoli candidati. […] C’è chi accusa l’apparato dei partiti, il quale, discriminando i candidati della stessa lista, ne determina l’accaparramento di voti a favore degli uni con danno degli altri. Non mancano indizî circa il patrocinio politico che enti statali e privati si assicurano in parlamento favorendo l’elezione di chi possa sostenere e difendere i propri interessi, impegnando a tale scopo somme non lievi nella battaglia delle preferenze. Quando entrate e spese sono circondate dal segreto della loro provenienza e della loro destinazione, la corruzione diviene impunita;manca la sanzione morale della pubblica opinione; manca quella legale del magistrato; si diffonde nel paese il senso di sfiducia nel sistema parlamentare» [SG, pp. 364-365].
Lo scontro del senatore Sturzo contro questo sistema di potere illegittimolo porterà, nel 1959, all’ultima sua battaglia, quella contro le «male bestie», cioè contro lo statalismo, la partitocrazia e l’abuso del denaro pubblico. Proprio quel sistema di moltiplicazione di centri di potere che usano dello Stato e dei poteri pubblici per compiere atti illegittimi, favori, sperperi, abusi, illeciti e corruttele. Le parole di don Sturzo saranno giudicate quelle di una cassandra, benché per ulteriori trent’anni si continuerà a parlare di questione morale nella politica, senza approfondire il problema e trovarne una soluzione efficace. Sarà la repressione giudiziaria degli anni ’90, nota come “tangentopoli”, a far emergere un sistema di corruzione di politici e funzionari pubblici, di concussione degli imprenditori, di finanziamento illecito della politica. GabrieleDe Rosa ne parla come una seconda scoperta, successiva alla caduta del muro di Berlino con quella rivelazione di cosa fosse l’Europa dell’est vittima del socialismo reale: «Ci fu anche l’altro svelamento, quello della nostra democrazia mortificata dalle degenerazioni partitocratriche, dagli eccessi del clientelismo statalista, dalle profonde manomissioni istituzionali e dal mondo delle collusioni fra pubblico e privato» [DeRosa (1997), p. XVI].Tangentopoli, una vicenda giudiziaria drammatica e complessa, che ha aperto il secondo tempo della “prima repubblica” italiana, non risolvendo i problemi della moralità nella politica, di selezione del personale politico, di finanziamento pubblico dei partiti, di valutazione di merito della classe dirigente, di trasparenza, imparzialità ed efficienza nell’azione della pubblica amministrazione.
Di Gaspare Sturzo
Tratto da Lessico Sturziano a cura di Antonio Parisi, Massimo Cappellano, Rubbettino