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Destra, sinistra e M5S: intervista a Luciano Violante

Intervista a Luciano Violante

Abbiamo parlato di divisioni, ma all’inizio della legislatura è nato persino un governo di larghe intese, certamente sospinto dal presidente Napolitano. A un certo punto Berlusconi si è chiamato fuori, fondando Forza Italia, ma una parte del suo partito, guidata da Angelino Alfano, è andata oltre, scegliendo di sostenere anche il governo Renzi. Cosa rende possibile la collaborazione tra forze pur diverse?

Innanzitutto il principio di realtà. Dati i risultati elettorali, non era praticabile altra soluzione. La perdita di centralità del conflitto tra capitale e lavoro e l’unicità dei destini dei lavoratori ha reso meno difficile costituire quell’alleanza di governo. Poi, come forse era prevedibile, il rapporto con il senatore Berlusconi è stato faticoso, per un dato strutturale e per un dato contingente. Il dato contingente fu costituito dalla condanna definitiva e dalla successiva decadenza da senatore. Il dato strutturale attiene al fatto che non è mai stato troppo a lungo in un’alleanza che non lo vedesse prim’attore. Berlusconi ha bisogno delle acque agitate. Muove il suo partito come fosse un vascello leggero capace di cavalcare i marosi. Il centrosinistra è un piroscafo pesante, formidabile nelle acque calme, in difficoltà con il mare agitato. Con la bicamerale presieduta da D’Alema andò allo stesso modo: prima grandi sorrisi e manifestazione di simpatia e consenso; poi, quando il gioco cominciò a farsi serio, la rottura. Il governo Monti era il «suo» governo, poi ne è uscito. Alla fine della XVI legislatura, nel 2012 si era stretta una intesa sulla legge elettorale tra Pd, Pdl, Udc: ancora una volta ha fatto cadere tutto proponendo il semipresidenzialismo con un emendamento in Commissione. L’uomo ha innegabili pregi. Ma è politicamente incostante.

Molti giovani hanno votato per Grillo e molti altri si sono astenuti. Anche loro non si sentono più rappresentati dal sistema dei partiti, nonostante i nuovi leader siano quarantenni.

Diamo tempo a questi dirigenti quarantenni di essere leader, guide, di manifestare capacità creative e capacità di mobilitazione.

Ma qual è il collante di questi elettori?

Il rancore, l’insofferenza, la domanda di cambiamento. Il M5S ha un formidabile patrimonio nelle mani, ma temo lo stia sprecando. Ora è a un bivio. O aumenta la carica oppositiva, dissacratoria, diretta alla denigrazione di tutto e tutti guadagnando spazio nella comunicazione, ma perdendo il consenso di una parte di coloro che li hanno votati pensando che potessero essere forza di trasformazione. Oppure diventano forza propositiva, ma dovrebbero negoziare con quelli che hanno insultato sino a poco prima.

È Grillo il nuovo?

Esperienze simili ci sono state anche in passato. Come «L’uomo qualunque» di Giannini. Per molti aspetti si somigliano. Grillo rappresenta un fenomeno interessante che però deve decidere come sviluppare la sua forza nel futuro. E se il «nuovo» è una categoria della politica, Renzi è certamente più nuovo di Grillo, che infatti appare consunto, logorato. In ogni caso si sbaglia a definirlo un comico.

Perché si sbaglia a definirlo un comico?

Non è solo un comico. Da anni si occupa di temi di rilevanza pubblica. Nei suoi spettacoli ha parlato della Parmalat, della Pirelli, dell’acqua pubblica. Poi ha comprato le azioni Telecom ed è andato alle assemblee degli azionisti. Ha individuato la crisi della rappresentanza politica e ha dato voce ai non rappresentati. Dissento dai metodi, dal sessismo, dalla violenza della lingua che ricorda drammatici precedenti in Germania e in Italia, ma il movimento non va lasciato a se stesso; invece va studiato con più pazienza e con meno partigianerie. Sono rimasto fedele a una antica massima del Pci: fare di ogni reazionario un conservatore, di ogni conservatore un moderato, di ogni moderato un democratico, di ogni democratico un progressista, di ogni progressista un rivoluzionario. Ma oggi mi fermo alla quarta casella, quella democratica.

È forse un populista?

Se fasce rilevanti di popolazione prestano orecchio al populismo, vuol dire che i politici non populisti sono distratti, stanno occupandosi di altro.

Forse quegli elettori non hanno tutti i torti.

La politica in questi anni non ha reso i servizi che doveva. Ed è giusto che in molti si sentano indignati. Ma Grillo rappresenta lo sdegno, non l’indignazione. Sono sentimenti diversi, in qualche modo opposti, anche se spesso vengono confusi. L’indignazione ti induce a mobilitarti per cercare delle soluzioni; lo sdegno, invece, è disprezzo degli altri e orgoglio di se stessi. L’indignazione può far nascere il cambiamento; lo sdegno genera contrapposizioni sterili e spesso violente.

Ma c’è dell’altro oltre l’indignazione? Come si può comprendere il consenso per il suo Movimento?

Il consenso elettorale del M5S rappresenta la fase conclusiva del conflitto della società contro la politica, aperto da Berlusconi nel 1994, quando si fece alfiere dei ceti produttivi contro il parassitismo della politica. Ma non è riuscito a dare un senso costruttivo a quella polemica e si è calato profondamente nei meandri della vita politica che all’inizio aveva sbeffeggiato. Di qui la «necessità» che ha Berlusconi di proposte spot come l’abolizione dell’Imu, proposta disastrosa e sterile, che cerca di intercettare una sofferenza sociale che non ha saputo trasformare in progetto.

Il Movimento 5 Stelle è destinato a durare anche oltre il suo fondatore?

Non credo che il Grillo di oggi possa essere un fenomeno permanente. Ha avuto un forte ripiegamento alle elezioni amministrative del 2013, pochi mesi dopo il successo alle politiche. La vittoria al Comune di Ragusa è stata conquistata grazie a un’alleanza con partiti tradizionali, contro le indicazioni dello stesso Grillo. Non si è presentato alle elezioni sarde del 2014. Perde un parlamentare dopo l’altro, per dimissioni o per espulsione. Sembra la storia dei dieci piccoli indiani. Comunque vedremo alle elezioni europee. La verità è che un fenomeno prevalentemente di protesta si spegne nel momento in cui gli altri riescono a dare risposte alle domande dei cittadini. Se Renzi riesce, Grillo o cambia o è finito.

Quindi la Terza repubblica nascerà senza Grillo?

Comprendo il senso della domanda, ma il conto delle Repubbliche, così diffuso, è una banalità. Comunque non vedo nel M5S la chiave del cambiamento. Credo piuttosto che possa esserlo il Pd di Renzi, però con un profondo cambiamento del suo modo di essere. Il Pd deve smettere di sentirsi come una somma di subpartiti e deve riallacciare un rapporto con la società italiana, con le sue persone. A mio parere è essenziale la ripresa di un rapporto della politica con la cultura. Mi pare che questo rapporto possa riprenderlo solo il Pd.

Ha senso parlare ancora di destra e sinistra? Norberto Bobbio ne individuava la diversità nella differente considerazione dei principi di libertà ed eguaglianza. Oggi qual è lo spartiacque?

Senza dubbio ha senso. La destra è più realista, accetta l’esistente con le sue storture e invita i singoli a barcamenarsi facendo leva sul proprio «spirito animale». La sinistra ha una visione ottimistica del reale, ritiene che lo si possa modificare e quindi intende renderlo migliore, agendo tutti insieme; non intende convivere con l’idea che le iniquità siano ineliminabili. La sinistra crede che la realtà possa essere migliore e così anche le condizioni sociali dei più deboli; su queste possibilità la destra è più tiepida. Entrambe sono per la libertà; più per la libertà di agire la destra, e più per la libertà dal bisogno la sinistra. Poi non bisogna dimenticare che gli eccessi dell’una e dell’altra hanno dato vita a mostri. Comunque l’attuale discrimine più forte riguarda l’uguaglianza.

Ad esempio?

L’uguaglianza ha costituito da sempre il cardine del pensiero e delle prassi della sinistra politica. Ma non ha giovato alla sinistra la confusione del passato tra uguaglianza ed egualitarismo. Sono cose profondamente diverse. L’uguaglianza è il rispetto della dignità di tutte le persone umane. L’egualitarismo è la parificazione di condizioni umane o professionali, che avviene senza libertà e in nome di un «principio superiore» collocato sul piano della pura ideologia e imposto coattivamente ai cittadini. Lo scivolamento verso l’egualitarismo ha portato a disconoscere il merito e renderlo una pretesa marginale. In realtà il merito è condannato non dall’uguaglianza, ma dalle strutture della disuguaglianza: le corporazioni, le burocratizzazioni, le clientele, il familismo, i processi corruttivi distruggono prima l’uguaglianza e poi il merito. Aggiungo che in questa fase le destre stanno dialogando con il diffuso sentimento di paura che attraversa le società europee. Si stanno adattando a questo sentimento utilizzando immagini che richiamano l’esperienza quotidiana. Le destre insomma, in tutta l’Europa, stanno dando senso a un mondo impaurito in piena mutazione. La sinistra deve fare altrettanto misurandosi anch’essa con il sentimento della paura, non per cavalcarla come fa la destra, ma costruendo fiducia.

E la destra?

Alcuni temi che dominano il dibattito pubblico nell’area della destra sono esplicitamente orientati al principio di discriminazione. Le polemiche sulla immigrazione, le offese alla religione islamica e a chi la pratica, il pregiudizio sessuale, l’avversione al diverso trovano largo consenso nella destra. Naturalmente non tutta la destra è su queste posizioni come non tutta la sinistra è stata su posizioni egualitaristiche. È in corso una ridefinizione identitaria in tutto il mondo politico, che non può procedere per inerzia. A questa ridefinizione tanto la sinistra quanto la destra devono dare il proprio contributo di pensiero.

Ma è l’uguaglianza il vero discrimine tra destra e sinistra.

Penso di sì e penso che l’uguaglianza dovrebbe essere oggetto di una nuova approfondita analisi anche per difenderci dalle apparenze di uguaglianza che ci vengono propinate quasi quotidianamente dai mezzi di comunicazione. La immagine icastica di questa falsa uguaglianza è costituita ai miei occhi da un ministro della Repubblica che tempo fa, per apparire «uguale ai comuni cittadini», in uno spettacolo televisivo si fece tirare una torta in faccia da un comico.

L’autoritarismo si nutre dell’apparenza dell’uguaglianza, mentre la democrazia si nutre di verità. Una parte rilevante delle trasmissioni tv pubbliche e private, specie nel pomeriggio, è destinata a rappresentare finzioni di eguaglianza. L’apparizione sullo schermo rende apparentemente eguali; tutti, celebri e ignoti, sorridono, esibiscono fascino, raccontano le proprie vicende intime, si scontrano, piangono, litigano sotto gli occhi benevoli del conduttore o della conduttrice. È una finzione globale, che coinvolge milioni di persone. L’uguaglianza, mentre esce dalla vita, entra nei teleschermi. La tv ha le sue leggi, ma la democrazia non è costretta ad assoggettarvisi. Deve difendere il suo ruolo e le sue responsabilità. Perché quando prevale l’apparenza sulla realtà, l’emozione sulla ragione, il respiro breve sulla riflessione, prevalgono i rapporti di forza e l’uguaglianza scompare. Nel Viaggio in Italia Goethe parla del carnevale romano cui gli accadde di assistere nel 1788 e così lo descrive: «La distinzione tra potenti e umili sembra momentaneamente sospesa: tutti si confondono con tutti, ciascuno accetta a cuor leggero ciò che trova e la reciproca impudenza e licenza trova un contrappeso nel buonumore generale».

La attuale programmazione televisiva di apparenti uguaglianze costituisce una sorta di carnevalizzazione permanente della vita quotidiana di milioni di persone, attraverso la finzione di un valore che si ritrova più sui teleschermi che nelle strade delle città.

Bisogna fare la pacificazione nazionale?

Siamo pacificati da 65 anni. Ma bisogna smettere con una politica che cerca l’annientamento dell’avversario ed è indifferente alla soluzione dei problemi dei cittadini e del Paese. Serve rispetto e legittimazione.

In due anni di larghe intese, c’è almeno stata la legittimazione reciproca tra destra e sinistra?

Non c’è stata. Perché le larghe intese non erano costruite sulla base di un unitario, approfondito e condiviso programma di governo, come oggi in Germania. Si fondavano su uno stato di necessità e, quindi, in base allo scambio di proposte. Più che proposte del governo, c’erano le proposte del Pdl, del Pd e così via, che il governo doveva attuare. Poi, negli ultimi anni anche nel nostro campo ha prevalso l’idea della non legittimazione dell’avversario: una sorta di berlusconismo al contrario, un antiberlusconismo ideologico che ha dato fiato e ruolo a Berlusconi.

È nata una destra normale, intanto?

A destra una parte maggioritaria del Pdl è tornata a Forza Italia, con le asprezze che erano proprie di quel partito. Alcuni non hanno aderito e hanno dato vita al Nuovo centrodestra; è nata così una destra più legata alla tradizione europea. Con una ispirazione religiosa cattolica più vicina a Ratzinger, mi sembra, che a Francesco. Se Ncd riuscirà nel suo progetto, ma non è certo, sarà lui la destra del futuro. Non mi sembra invece di vedere il futuro in una Forza Italia ancora così dipendente da Silvio Berlusconi. Può darsi peraltro che la nuova legge elettorale costringa Ncd a rientrare nei ranghi.

Ma si può parlare effettivamente di destra in Italia?

Dopo la fine dei blocchi ideologici, tutte le identità politiche sono in corso di ridefinizione. La destra della tradizione europea credo che possa essere ritrovata in alcune posizioni di Mario Monti e, oggi, nel Ncd, ma non certamente nella destra di Silvio Berlusconi, destra della spesa pubblica, della statalizzazione e del neocorporativismo. In realtà chi votava Berlusconi, lo votava prima di tutto perché era contro la sinistra; così chi votava a sinistra lo faceva soprattutto perché era contro di lui. Valeva la regola: «Se tu sei nemico del mio nemico, sei mio amico». Spero di poterne parlare al passato.

Testo tratto da Luciano Violante, Mario De Pizzo, Il primato della politica, Rubbettino