Repressione dei valdesi in Calabria
La vicenda di Gian Luigi Pascale
La scintilla – riprendendo la metafora precedente – fu dovuta alle iniziative di un pastore calvinista di origine piemontese, non inviato da Calvino, ma richiestogli dai valdesi stessi: Gian Luigi Pascale. Per introdurre questa figura fondamentale negli avvenimenti che portarono i valdesi allo scontro con le autorità locali che fino a quel momento li avevano tutelati, è bene rievocare gli avvenimenti che portarono alla sua venuta in Calabria. Si è visto come l’inizio della fine degli atteggiamenti nicodemitici possa essere ricondotto al 1557, anno in cui Gilles des Gilles abbandonò per l’ultima volta la Calabria e Stefano Negrino prese il suo posto come predicatore principale; proprio durante il ministero di quest’ultimo il desiderio di emulare i fratelli piemontesi, che stavano abbandonando ogni incertezza per intraprendere a tappe forzate la via del calvinismo, portò i più arditi calabro-valdesi a decidere di inviare qualcuno al nord per richiedere un pastore di provata aderenza alla nuova fede che fosse disposto a recarsi in Calabria a predicare. Della delegazione, oltre al ministro Stefano Negrino, faceva parte un altro personaggio che si sarebbe rivelato di capitale importanza in seguito: un tale Marco Uscegli, che i compaesani chiamavano amichevolmente «Marchetto» o «Marchiotto». Anche questo racconto è tramandato, tra gli altri, da Pierre Gilles, che tuttavia in questo caso non si dilunga troppo, forse perché questi avvenimenti non erano stati vissuti in prima persona da suo padre: Fintanto che queste Chiese di Calabria persistevano nella delibera suddetta di imitare le chiese dei valdesi del Piemonte, ancorché non tutti fossero di tale avviso, inviarono a Ginevra Marco Uscegli, comunemente detto Marchetto, uomo pieno di pietà e zelo, per avere, attraverso la Chiesa Italiana che si trovava lì, qualche pastore dotato di coraggio e prudenza necessari per l’esecuzione del loro scopo, in compagnia del ministro Negrino, che essi avevano già inviato. Come in effetti il suddetto Marchetto ottenne e condusse in Calabria il Ministro Gian Luigi Pascale di Cuneo, in Piemonte, personaggio dotato di grandi qualità, il quale arrivò in Calabria e fece bene il suo dovere […] intorno all’anno 1561 . Gilles in questo passo non tratta, tra i vari personaggi, di un altro ministro importante nella svolta verso l’esternazione dell’alterità religiosa, ossia Giacomo Bonelli, riportato invece da Scipione Lentolo, che lo mette per importanza, almeno all’inizio, sullo stesso piano di Pascale: Percioché havendo essi mandato alcuni huomini alla chiesa di Geneva […] a richiederli di qualche buon Ministro, fu loro inviato M. Giacomo Bonelli, huomo in modo temente Dio e di buon zelo, che ultimamente in Palermo ha sofferto per la querela del Signore il cruciato del fuoco. Appresso a costui fu loro mandato M. Giovan Luigi Pascale, il quale ancora et in Cosenza, et in Napoli, et in Roma havendo vivamente confessato Giesù Christo, all’ultimo pure in Roma morì. Questi dunque furono i primi li quali cominciarono a mettere l’evangelio in pubblico tra costoro e a mostrar loro ch’era necessario più tosto morire che offender Dio idolatrando. Come si vede, nella versione di Lentolo l’omesso è Marco Uscegli, poiché il suo ruolo viene diluito nell’espressione «mandarono alcuni huomini alla chiesa di Geneva». Un’altra precisazione da fare è che Bonelli era già stato in Calabria nel 1558, svolgendo la predicazione a San Sisto un anno prima dell’arrivo di Pascale. Questi due testi tuttavia, e in particolare il secondo, introducono il tema principale della predicazione calvinista, di cui sia Bonelli, sia Pascale erano ferventi seguaci, che può essere emblematicamente riassunto nell’espressione: «era necessario più tosto morire che offender Dio idolatrando». Ritornando alla figura di Gian Luigi Pascale, bisogna dire che, quando giunse in Calabria nella primavera del 1559 affiancato da Stefano Negrino e da quel Marco Uscegli che sarebbe stato suo compagno fino agli ultimi giorni della sua vita, il predicatore cuneese si portava dietro un breve ma intenso passato: Nato a Cuneo nel 1525 da una famiglia benestante, aveva intrapreso la carriera militare raggiungendo il grado di ufficiale dell’esercito sabaudo, finché non entrò in contatto con le idee riformate, che lo spinsero a disertare per recarsi a Ginevra nel 1552. Entrato a far parte della Chiesa Evangelica Italiana, Pascale si dedicò agli studi teologici presso l’Accademia di Losanna, dove tradusse il Nuovo Testamento in italiano e in francese e altri scritti di teologia. Dopo aver terminato gli studi, si era fidanzato da poco con Camilla Guarina di Dronero, quando venne scelto per la missione in Calabria all’età di 34 anni. Giunto in Calabria, iniziò la predicazione a San Sisto, dove poté prendere atto per la prima volta della diversità di opinioni tra i valdesi in merito all’abbandono della dissimulazione. In particolare, sembra che coloro che si erano inseriti meglio nel contesto territoriale grazie alle secolari pratiche dissimulatorie, che li avevano portati anche a seguire regolarmente la messa (forse in qualche caso la frequentazione di messe cattoliche aveva addirittura sortito l’effetto di avvicinare alcuni di essi al cattolicesimo, o comunque di non far loro desiderare un conflitto con la confessione dominante), fossero molto critici nei confronti della venuta di questo infervorato calvinista, tanto da accusare apertamente Marco Uscegli di aver fatto venire Pascale senza il loro consenso. La stessa questione si ripropose a Guardia, nel qual caso Pascale specifica che quelli maggiormente contrariati per la sua presenza erano i più ricchi, che lo avevano perfino pregato di allontanarsi dalla città; di contro, il «povero Popolo, il quale era, non affamato, ma morto di fame dell’Evangelio» aveva visto con favore la sua predicazione e si era dimostrato desideroso di apprendere da lui le Sacre Scritture secondo il metodo calvinista. La predicazione di Pascale ebbe successo nonostante le divisioni e la maggioranza dei valdesi, che si stava ormai infervorando, decise di abbandonare ogni indugio per abbracciare il culto pubblico; fu proprio allora che Salvatore Spinelli, feudatario di Guardia e sincero protettore dei valdesi fino ad allora come suo padre prima di lui, preoccupatosi della piega che stavano prendendo gli avvenimenti, pensò di entrare in azione per scacciare il nuovo e pericoloso predicatore, il quale decise di restare in Calabria affrontando ogni pericolo con il cuore sereno di chi sapeva di essere destinato al martirio (da molti passi delle sue lettere pare addirittura che lo bramasse) fin da quando aveva deciso di intraprendere il viaggio verso sud. Vista l’intransigenza del predicatore cuneese, Salvatore Spinelli si vide costretto a un approccio più deciso, che denota anche la fermezza del feudatario nell’evitare l’estendersi della predicazione eterodossa che avrebbe minato gli stessi rapporti sociali, oltre che richiamato il braccio secolare della Chiesa romana in quelle zone. Spinelli sapeva perfettamente il pericolo che si correva e perciò si risolse di agire. Così rievoca l’evento Pascale in una sua lettera: E perché Iddio voleva così, fece che il Sig. Salvatore, doppo havermi fatto minacciar due volte e comandare, ch’io mi ritirassi, la terza volta mandò un suo ufficiale a citare 24 huomini de’ suoi a comparire dinanzi a lui: fra i quali vi erano i primi de’ fedeli, e comandava loro, che non volendo io partirmi, mi legassero e menassero a lui sotto pena della sua disgratia. Allora veggendo io i fedeli essere così citati, e dubitando che non andassero come al macello, dissi ch’io voleva piutosto morire che abandonarli. Per la qual cosa andammo a comparire, e stemmo tutto il giorno in libertà fuor della Terra. La sera fe licentiare i suoi huomini, et a me comandare che non mi partissi, perciochè voleva parlarmi. Io poteva allora fuggire, et andarmene a mio piacere: ma il rimorso della conscienza mi ritenne, per la paura che il mio fuggire non fosse cagione di dar qualche scandalo a quei poveri fedeli. Iniziò con questo stratagemma – e non sarà l’unico adoperato da Spinelli nel corso di quegli anni, come si vedrà – la cattività di Gian Luigi Pascale; era il 2 maggio 1559: la sua libera predicazione era durata poco più di un mese. La prigionia a Fuscaldo all’inizio non fu dura, anzi lo stesso Pascale, in una lettera inviata a Ginevra dopo appena 6 giorni di prigione, scrive di essere trattato meglio di come sarebbe stato a casa sua, ma ben presto ricevette le prime visite del clero cattolico desideroso di disputare con l’eretico, anche se a quanto pare i primi preti non riuscirono a tenergli testa. Il «caso Pascale» divenne in breve tempo un affare troppo grande per rimanere una questione locale, iniziando a suscitare l’interesse delle autorità civili ed ecclesiastiche. La palla passò così gradualmente ma inesorabilmente ad autorità più elevate e Pascale non mancò di accorgersene, prima per la risposta fredda che ricevette la sua supplica a Salvatore Spinelli, poi durante un discorso molto franco che ebbe con un familiare del feudatario, il quale gli confidò che «non è più in potere del Sig. Salvatore di darmi libertà», aggiungendo che prima o poi Pascale sarebbe stato inviato a Roma. Mentre si susseguirono interrogatori e dispute teologiche alle quali Pascale seppe tener testa, accadde un evento destinato a capovolgere completamente il rapporto tra Salvatore Spinelli e i suoi stessi sudditi ultramontani: questi ultimi avevano, infatti, addirittura denunciato il loro feudatario alla Corte di Napoli, causando l’ira del signore che per difendersi li accusò tutti di eresia al Vicerè; Quest’ultimo, don Parafan de Rivera, duca d’Alcalà, avviò un’inchiesta a discolpa del Cavaliere Spinelli contro i valdesi di Guardia. La situazione del prigioniero a questo punto andò gradatamente peggiorando, tanto che già il 31 maggio 1559 scrisse: «dopo la partenza del Sig. Salvatore per Napoli, mi è stata proibita non solo la comunicatione con le persone, ma mi hanno ancora messi i ferri ai piedi»; un po’ di fortuna, o meglio una boccata d’ossigeno, la ebbe con la morte del pontefice Paolo IV Carafa il 18 agosto 1559, dopo la quale la sede apostolica rimase vacante per ben quattro mesi. Il processo riprese tuttavia con maggior vigore dopo l’elezione (25 dicembre) del nuovo papa, Giovanni Angelo Medici di Marignano (1499-1565), che prese il nome di Pio IV, tanto che già il 27 Pascale subì il primo dei tanti interrogatori ufficiali. Nel frattempo era stato trasferito, assieme ad altri tre uomini di cui uno era il fedele compagno Marco Uscegli, dal castello di Fuscaldo a quello di Cosenza, di gran lunga più importante e «pericoloso», dal quale scrisse le sue lettere fino all’aprile del 1560. Qui il predicatore piemontese si trovò in una realtà tra le peggiori che avesse mai vissuto, che gli avrebbe fatto rimpiangere la prigionia di Fuscaldo anche nel periodo di maggiore ira di Salvatore Spinelli nei confronti degli ultramontani. L’immagine che ci dà è quanto mai significativa: questo horribile spettacolo – scrive Pascale – che habbiamo tutti i giorni dinanzi agli occhi […]. Siamo qui da cento persone, tutte ridotte in luogo oscuro: nel quale la più gran parte di quelli che scappano di esser mangiati da pidocchi, si muoiono di fame. A Cosenza Pascale e compagni sarebbero rimasti fino al 15 aprile 1560, giorno in cui partirono via terra alla volta di Napoli giungendovi nove giorni dopo. Significativamente, l’ultima lettera inviata da Cosenza è quella destinata alla sposa Camilla Guarina, nella quale, non sapendo se in futuro ne avrebbe avuto occasione, il pastore calvinista si accomiata a cuor sereno, felice di poter salutare almeno un’ultima volta la donna amata («E pure ancora una volta, mia cara sposa e sorella in Giesù Christo, vi saluterò […] contro ogni mia speranza»), consigliandole di rallegrarsi comunque sempre nel Signore, di temere Dio, di leggere continuamente la Sacra Scrittura, partecipare alle prediche, soccorrere i poveri e gli infermi, e infine di pregare il Signore per lui. Il viaggio per Napoli fu durissimo, anche se il dotto prigioniero riuscì comunque a scrivere le memorie: […] del mangiare non fummo mal trattati: ma il buono Spagnuolo che ci conduceva, ci fece prima riscuotere, per non metterci alla catena come gli altri […] ma mi messe un paio di manette tanto strette, che mi fece sorte gonfiar i bracci, che l’ferro cominciava già ad entrar nella carne. […] Il nostro riposo della notte era peggior di quello delle bestie […]. In questa maniera siamo stati nove giorni per cammino. Meno duro, invece, quello successivo per Roma, compiuto via mare; una volta giunto nell’Urbe, il 15 maggio, Pascale fu incarcerato assieme ai suoi compagni e gli venne tolta la penna. Da questo momento in poi, non potendo egli più scrivere alcuna lettera, della sorte di Pascale e compagni si hanno ben poche notizie. Certo è, tuttavia, che dopo un estremo tentativo operato dal fratello di Pascale, tale Gian Bartolomeo, di fargli evitare la pena capitale, il predicatore venne infine condannato come eretico e salì sul rogo il 16 settembre 1560 a Castel Sant’Angelo.
La repressione
Certamente un caso eclatante trascinatosi per più di un anno come fu quello di Gian Luigi Pascale, contribuì ad attirare verso l’Italia meridionale l’occhio dell’Inquisizione romana e soprattutto dell’inquisitore generale: quel Michele Ghislieri (al secolo Antonio) che nel 1566 sarebbe divenuto papa con il nome di Pio V. Quest’ultimo, che già dal tempo della predicazione di Pascale era stato informato dell’evolversi degli avvenimenti, inviò in Calabria nel novembre del 1560 l’inquisitore Valerio Malvicino, frate dell’ordine domenicano che, giunto a Cosenza il 13 novembre, iniziò l’opera dedicandosi alla visita dei luoghi interessati maggiormente dall’eresia: Montalto, San Sisto e Guardia. Questo primo giro di ricognizione servì all’inquisitore per farsi un’idea del dilagare dell’eresia, che cercò di combattere prima con la persuasione, passando poi a maniere più forti: nei primi mesi del 1561 Malvicino minacciò tortura e morte a chi non avesse abiurato; ma anche a chi avesse preferito l’abiura non sarebbe andata del tutto liscia, poiché gli sarebbe stato imposto il cosiddetto abitello. Con questo termine si definiva un vero e proprio marchio d’infamia, consistente in due strisce di tessuto giallo con una croce rossa al centro che ricadevano sul petto e sulle spalle di coloro che, in questo modo, erano riconoscibili da tutti in quanto eretici e apostati. Ai valdesi a questo punto non rimaneva che scegliere tra l’abiura del loro credo e la resistenza: alcuni invero scelsero l’abiura e la sopportazione dell’abitello, ma altri, ritenendo inaccettabile il tradimento dei propri ideali e il giogo dell’infamia, fuggirono per darsi alla «macchia», unendosi in qualche caso ai briganti che infestavano le montagne o semplicemente nascondendosi tra le campagne e le foreste poste nell’immediato entroterra dei villaggi dai quali erano fuoriusciti. Le circostanze avevano fatto emergere nuovi, aggressivi comportamenti in una popolazione che fino a qualche tempo prima si segnalava per un pacifismo perfettamente in linea con gli ideali del valdismo medievale. Apogeo di questa nuova aggressività degli ultramontani fu l’uccisione del barone di Castagneto, comandante dell’esercito vicereale composto da due compagnie di circa mille soldati inviato su richiesta dell’inquisitore Malvicino che, non essendo più in grado di gestire una situazione ormai degenerata, si era visto costretto a chiedere l’aiuto dell’autorità costituita. La vicenda della morte di Castagneto è raccontata con dovizia di particolari da Scipione Lentolo che, ovviamente, essendo di parte valdese, ci tiene a precisare come non furono i suoi correligionari a voler dare battaglia, ma lo stesso barone che costrinse il terrorizzato gruppo dei valdesi alla strenua resistenza nella quale cadde, tra gli altri, lo stesso comandante delle truppe vicereali: Era il sole per tramontare, quando costoro [i valdesi] pregando i soldati che non venissero più oltre, Castagneto si fe’ innanzi e, non piegandosi 67 agli umili prieghi loro, cominciò […] a gridare in sua lingua: Ammazza, ammazza gl’inimici della fede! Per la qual cosa da 40 di quei poveretti, veggendo le suppliche loro esser vane, si posero in difesa, la quale Dio piacque di prosperare per sì fatta maniera che vi morì il Castagneto con forse 50 dei suoi soldati, essendo da quest’altra parte solamente stati feriti due, cioè Guglielmo Crispino e Stefano Canale. L’epilogo di questa vicenda fu quanto mai drammatico per i valdesi: coloro i quali erano sopravvissuti allo scontro con le truppe di Castagneto erano fuggiti subito dopo, ma, forse per pentimento per gli orrori del sangue sparso, forse perché il cerchio della repressione si stava stringendo loro attorno e li soffocava, decisero, in seguito a un periodo di vagabondaggio, di dividersi in gruppi di due, tre o al massimo quattro persone così da poter dare nell’occhio il meno possibile; questa strategia, però, non sortì l’effetto sperato, tanto che la maggior parte di essi venne catturata. Frattanto, la notizia della morte di Castagneto aveva suscitato molto scalpore, poiché era stato un esplicito atto di resistenza all’autorità vicereale, di cui il barone era espressione sul territorio. La conseguenza di un gesto così eclatante non si fece dunque attendere; il viceré inviò un nuovo contingente in Calabria, questa volta guidato dal marchese di Bucchianico Marino Caracciolo, pose delle taglie sui valdesi e dispose la possibilità di un’amnistia totale per chiunque avesse voluto aggregarsi alle truppe guidate da Caracciolo; infine lo stesso viceré giunse in persona a Cosenza per concertare le operazioni. Venne dunque organizzata una missione repressiva in grande stile, che avrebbe falcidiato in breve tempo la secolare minoranza etnica che aveva contribuito non poco allo sviluppo della zona stessa in cui era vissuta. Della cruentissima repressione sono giunte fino a noi numerose testimonianze sia di parte valdese, sia di parte cattolica o delle autorità che gestirono la repressione. Basti qui menzionare alcuni eventi di un certo rilievo, tra cui l’incendio di San Sisto e soprattutto la caduta di Guardia, che era una città ben fortificata e pertanto l’unica capace di resistere perfino a un assedio. Questa prospettiva non era rosea né per i valdesi, che sapevano che non avrebbero mai potuto ricevere alcun soccorso ed erano pertanto in questo caso destinati a un’eroica resistenza, né per le autorità, che avevano fretta di concludere. La caduta di Guardia fu rapida, ma le fonti discordano sulle modalità: quelle di parte valdese puntano il dito sull’inganno e le macchinazioni degli inquisitori che avrebbero promesso la salvezza in caso di resa, ma non avrebbero poi mantenuto la parola data, mentre quelle di parte cattolica raccontano come il feudatario di Guardia, Salvatore Spinelli, desideroso che la «sua» città non subisse danni, avrebbe ideato un astuto e ulissiaco stratagemma: scelse cinquanta uomini e, muniti di armi nascoste, li inviò come prigionieri comuni scortati da altri cinquanta soldati, anch’essi armati di nascosto, davanti alle porte di Guardia; chiese poi, in qualità di feudatario, che essi aprissero le porte e permettessero che i prigionieri venissero condotti alle prigioni del castello; gli ultramontani scelsero di rispettare il legame feudale nonostante la situazione e fecero entrare gli uomini. Durante la notte questi ultimi aprirono le porte alle milizie appostate fuori dalle mura e così Guardia venne presa senza colpo ferire. In ogni caso, Guardia venne occupata il 5 giugno 1561 senza alcun lungo ed estenuante assedio. In seguito vennero compiuti atti di immane crudeltà ed efferatezza tra i cittadini, alla fine dei quali ai pochi sopravvissuti venne chiesto di scegliere tra l’abiura (e quindi l’abitello) e la morte. I prigionieri di Guardia e di tutti gli altri paesi oggetto della repressione vennero fatti confluire a Montalto, quartier generale delle operazioni, dove era stato allestito in fretta e furia un tribunale speciale composto da Malvicino, dal Vicario di Cosenza e dal commissario governativo Pirro Antonio Pansa. Qui li raggiunsero due padri predicatori della Compagnia di Gesù, che erano stati chiamati nel maggio dello stesso anno per occuparsi dell’evangelizzazione degli eretici. Allora gli eventi non erano ancora precipitati per la morte di Castagneto e così si riteneva che i gesuiti avrebbero potuto ancora salvare almeno in parte la situazione. Invece, quando giunsero padre Lucio Croce e padre Giovanni Xavier, la tragedia si era già consumata e ben poco poterono fare, oltre che cercare di dare conforto ai prigionieri destinati alla pena capitale. Un’immagine cruda della sorte toccata ai prigionieri condannati per eresia è riportata in una lettera dell’11 giugno 1561: Fino a quest’ora s’è scritto quanto giornalmente di qua è passato circa a questi eretici. Ora occorre dir come oggi a buon’ora si è ricominciato a far l’orrenda iustitia di questi luterani, che solo in pensarvi è spaventevole. E così sono questi tali come una morte di castrati; li quali erano tutti serrati in una casa, e veniva il boia e li pigliava a uno a uno, e gli legava una benda avanti agli occhi, e poi lo menava in un luogo spazioso poco distante da quella casa, e lo faceva inginocchiare, e con un coltello gli tagliava la gola, e lo lasciava così; di poi pigliava quella benda così insanguinata, e col coltello sanguinato ritornava a pigliar l’altro, e faceva il simile. Ha seguìto quest’ordine fino al numero di 88; il quale spettacolo quanto sia stato compassionevole lo lascio pensare e considerare a voi. I vecchi vanno a morire allegri, e gli giovani vanno più impauriti. Si è dato ordine, e già sono qua le carra, e tutti si squarteranno, e si metteranno di mano in mano per tutta la strada che fa il procaccio fino ai confini della Calabria; se il papa et il signor Viceré non comanderà il signor Marchese che levi mano. Tuta via fa dar la corda agli altri, e fa un numero per poter poi far del resto. Si è dato ordine far venire oggi cento donne delle più vecchie, e quelle far tormentare, e poi farle giustiziar ancora loro, per poter far la misura perfetta. Con gli eventi cruentissimi di quei giorni le autorità volevano dimostrare a tutta la popolazione il rischio che si correva con il lasciarsi sedurre dall’eresia; un rischio reale, testimoniato dai corpi squartati e disseminati lungo le strade della Calabria, macabro monito e dimostrazione di forza dell’azione congiunta delle autorità civili ed ecclesiastiche. In quegli stessi giorni fu catturato anche quel ministro Stefano Negrino che era venuto in Calabria nel 1557 al posto di Gilles des Gilles; venne portato a Montalto «a suon di trombetta» tra gli scherni della gente accorsa per vedere la scena. Dopo un breve interrogatorio a cui lo sottopose il commissario Pansa, fu mandato nelle carceri di Cosenza, dove l’anno precedente era stato incarcerato Gian Luigi Pascale. Qui venne condotto alla presenza del Viceré, che gli chiese di improvvisare una predica per poter sentire l’eresia dalla viva bocca del predicatore valdese. Il sermone proferito da Negrino, stando a quanto riferisce Lentolo, dovette stupire molto il Vicerè e tutti coloro che erano presenti alla scena se questi, all’udirlo, esclamarono: «Costui non parla che di Christo, né confida in altro che in Christo, e pure si ritrova in simile heresia». Dopo questo colloquio il ministro Negrino venne rinchiuso in un’angusta cella del castello cosentino, forse per poi essere mandato a Roma a subire un processo simile a quello di Pascale; non si spiegherebbe altrimenti come mai non fosse stato ucciso sommariamente come gli altri «semplici eretici» a Montalto. Tuttavia il processo per lui non si compì, né fu condotto a Roma, poiché morì di stenti nella cella stessa in cui era stato rinchiuso. Come Negrino, tanti altri valdesi andarono incontro a un triste destino: alcuni vennero mandati come vogatori nelle galee regie, altri trovarono la morte in diverse circostanze, contribuendo a lasciare un segno indelebile nelle coscienze di chiunque abitasse la regione in quegli anni. Per dare un’idea dell’incidenza sia sulle coscienze, sia sulla demografia della regione, basti citare quanto scrive un testimone in una lettera del 12 giugno 1562, a un anno esatto dalla repressione: Ora essendo qui in Mont’Alto alla persecuzione di questi eretici della Guardia Fiscalda, a Casal di San Sisto, contro gli quali in undici giorni si è fatta esecuzione di 2000 anime; e ne sono prigioni 1600 condennati; et è seguita la giustizia di cento e più ammazzati in campagna, trovati con l’arme circa quaranta, e l’altri tutti in disperazione a quattro e a cinque: brugiate l’una e l’altra terra, e fatte tagliar molte possessioni. Frattanto si procedette alla confisca dei beni degli eretici a vantaggio della Regia Camera, per la qual cosa venne inviato da Napoli Annibale Moles, che giunse in Calabria nel settembre del 1561 e operò scrupolosamente per sette mesi. Di questa fase di redistribuzione delle ricchezze un tempo possedute dai valdesi non ne beneficiarono tutti, ma per lo più coloro che con meno scrupoli e più intraprendenza (oltre che con la disponibilità di denaro per potersi accaparrare terre ed edifici) si inserirono nella divisione delle spoglie dei calabro-valdesi; un esempio di un certo rilievo è quello di Salvatore Spinelli, lo stesso feudatario della zona, che quattro anni dopo la repressione era divenuto Marchese e che nel 1577 acquistò a metà prezzo i terreni allodiali dei valdesi dalla Confraternita della Redenzione degli Schiavi (alla quale Filippo II aveva donato i beni espropriati che avevano un valore stimato di circa 5.000 ducati) per poi girarli a sua volta all’Università di Guardia in cambio di un censo annuo. Con questo macabro, ma usuale epilogo di spartizione dei beni dei condannati ebbe termine l’epoca d’oro dell’esperienza singolare di una enclave occitana di fede valdese sul suolo calabrese. È acutissima in questo senso un’osservazione di Ernesto Pontieri, secondo cui «il massacro di Montalto fu come una “notte di San Bartolomeo” in anticipo del Regno di Napoli: diversamente però dagli ugonotti in Francia, i valdesi di Calabria furono effettivamente annientati». Dopo il 1561 niente sarebbe stato più lo stesso. I pochi valdesi sopravvissuti alla repressione in parte erano fuggiti altrove, ma in parte erano rimasti o per scelta o per imposizione e, condannati per un certo tempo a indossare l’abitello, avevano poi continuato a vivere negli stessi luoghi d’un tempo, anche se in una nuova e più triste realtà. La forza della lingua e delle tradizioni però non venne meno, tanto che tutt’oggi è presente ed è verificabile soprattutto a Guardia (oggi Guardia Piemontese), dove il vernacolo, i costumi tradizionali e molti toponimi ricordano le esperienze passate. Persino la porta dalla quale entrarono gli assalitori dando inizio alla strage del 1561 è ancora in piedi, significativamente chiamata da allora in poi «Porta del Sangue» per via (secondo una vaga, ma radicata tradizione) del sangue dei valdesi che si sarebbe incanalato per le vie in pendenza confluendo verso essa.
Da “La repressione dei calabro-valdesi” in “Storia dei valdesi in Calbria” di Vincenzo Tedesco