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Giuseppina Torregrossa: se scappa il marito

Gaetano è sparito. All’ufficio non c’è, a casa ho trovato tutte cose sotto sopra. Bedda matri, che malanova! Carte sparse dappertutto e mancano pure i soldi che stavano nel cassetto delle camicie. Cosa può essere capitato a mio marito? La testa mi bolle. Magari se lo sono portato via con la forza.
E se fosse successa una disgrazia? Ma dal camerino manca la valigia nuova e dallo studio sono scomparsi il suo passaporto e alcuni documenti. E che c’entra che non trovo le foto del matrimonio e quelle delle picciridde? Forse è dovuto scappare e si vuole ricordare di noi… Ma se lo conosco bene quello se n’è voluto andare, senza lasciare nulla che possa in qualche modo far risalire a lui.
Io mi sento attapanata. Cosa vuol dire? Non lo so con precisione, è una parola che sentivo a casa da bambina. Mia madre, quando non ne poteva più di lavorare come una bestia, diceva che si sentiva attapanata. Mia nonna la stessa cosa quando si doveva ritirare nella stanza da letto con mio nonno. Mi sono fatta l’idea che è come essere in trappola, anzi in una palude, i piedi affondati nelle sabbie mobili, il corpo per intero nel fango, la testa fuori per respirare. Quando ogni piccolo movimento produce uno sprofondare ulteriore, ecco allora sei attapanata.
Un ometto insignificante, basso e un po’ grassoccio, la faccia tonda e la testa grossa rispetto al corpo, i capelli castani e corti, un paio di occhiali davanti agli occhi da miope, le gambe leggermente storte.
«Segni particolari?».
«Nessuno».
«Cosa indossava?».
«Una maglia rossa e un paio di pantaloni di velluto blu, larghi, comodi; mocassini marroni, un orologio d’oro al polso».
La descrizione di Gaetano mi esce dalla bocca con difficoltà. Il poliziotto di turno mi ascolta imbarazzato. «Quarantacinque anni, un uomo qualunque, come ce ne sono tanti. Ma perché sparire così, nel nulla? E lasciare a sua moglie e due figlie piccole?», aggiungo con un’espressione di stupore sul volto.
Gli agenti, gentili nei modi e nelle parole, si alternano nella stanza. Mi permettono di fumare senza limiti né condizioni, un po’ perché lo fanno tutti, un po’ per allentare la tensione che si taglia con il coltello. Mi hanno pure offerto il caffè e una sfincia di san Giuseppe. Quanto mi piacciono! È una festa quando le preparo a casa. Le picciridde si leccano le dita una a una. Io ci metto pure il cioccolato a gocce. Quella che ho mangiato l’hanno presa sicuro al bar quà sotto e infatti m’è sembrata un poco passatella. La pasta era dura e non voleva scendere neanche quando mi sono data due botte sul petto. La verità è che ho lo stomaco sottosopra e l’ho ingoiata perché non volevo offendere l’ispettore. E poi si dice che chi non accetta non merita.
Il commissariato è un appartamento caldo e mal frequentato, al primo piano di un edificio moderno al centro di Tummìna, così si chiama il mio paese.
Ne hanno di lavoro i poliziotti, da quando il consiglio comunale è stato sciolto per mafia; molti funzionari sono stati arrestati, altri sospesi e poi ci sono stati diversi morti ammazzati. Ora è stato nominato un commissario straordinario con il compito di riportare la legalità. Mio marito è ingegnere e lavora da molti anni per il Comune. Un anno fa lo hanno messo a capo dell’ufficio tecnico, un incarico molto delicato. Sono sicura che la notizia della scomparsa di Gaetano ha già fatto il giro dei bar e l’effetto è quello di una bomba che esplode in una piazza affollata. Delitto di mafia, fuga, rapimento, lupara bianca… Mi sembra già di sentire le voci dei paesani che parlano e straparlano.
«Lo sapete che nova c’è? U geometra…. spirì!».
«Casomai ‘ngignieri».
«Non si trovano cchiù, né u geometra e mancu u ‘ngignieri».
«Magari è appresso a una buttana».
«Seh, quello ha gana solo di mangiare e travagghiare».
«E Anciluzza, mischina». Oddio che confusione! La testa devo tenerla tra le mani per non farla girare.
Il poliziotto seduto di fronte a me ha la faccia addolorata, manco fosse lui il responsabile della sparizione di Gaetano; mi porge un fazzoletto e quando non riesco a parlare perché il pianto mi rompe le parole, si ferma paziente e aspetta che riprenda spontaneamente a raccontare. Mi batte la mano sulla spalla per farmi coraggio, «Signora, non si disperi, vedrà che lo troviamo, magari torna lui da solo».
Il neon ci stampa sulla faccia un colore giallino nonostante l’abbronzatura che nei paesi di mare dura tutto l’anno. Dalle finestre il rumore delle macchine e dei ragazzi che giocano a pallone. Ogni tanto la voce di un venditore ambulante. Tengo gli occhi bassi, un po’ per pudore, le donne del sud lo fanno automaticamente, un po’ per il mal di testa che mi appesantisce le palpebre. Gente che va e viene di continuo, la confusione che ho in testa peggiora.
Il commissario entra nella stanza all’improvviso, butta il cappello su una sedia solitaria e si lascia cadere sulla sua poltrona come se le gambe avessero ceduto di botto. Ha un paio di grossi baffi neri, una bella faccia da siciliano forte, di quelli che nella vita ne hanno viste assai e la sanno lunga, pronto a raccogliere qualunque sfida, la guardia alta, l’ironia e la tenerezza sempre a portata di mano, che in Sicilia prendersi sul serio può essere molto pericoloso. Sembra uscito dalle pagine di un romanzo: i capelli folti e scuri incorniciano il volto, come una criniera, pare un leone acquattato, le sue unghie forse sono un poco spuntate, ma capaci ancora di graffiare. Si passa la mano aperta sulla faccia a cancellare la stanchezza, fa una specie di smorfia come a dire “macari chistu!” e si gira verso di me. La testa un po’ inclinata da un lato, gli occhi dritti nei miei, una sigaretta tra le dita della mano sinistra, l’altra libera di gesticolare e di muoversi tra una penna, la tastiera del computer, il telefono cellulare che ogni tanticchia suona. Mi ascolta mentre parlo e muto cala il mento per manifestarmi la sua comprensione. È la prima volta che lo incontro così da vicino, ma in paese di lui se ne parla spesso. Si dice che abbia affrontato diversi conflitti a fuoco, gli hanno sparato tre volte e pare che abbia catturato latitanti di peso; è molto rispettato dalla gente perbene e anche da certe persone che non si possono toccare e nemmeno nominare.
Improvvisamente mi rendo conto che ho paura, sono senza soldi, senza lavoro, completamente sola. Avverto un senso di grande vuoto che non credo sia imputabile alla scomparsa di Gaetano. Da un po’ ci siamo allontanati, mi sembrava di non avere alcun interesse per lui. Mi segno come promemoria “disinteresse”, sono certa che sarà la chiave per sopravvivere nei prossimi giorni e per capire le ragioni che lo hanno allontanato da me. Sono avvilita, disorientata. Guardo di sottecchi il commissario, ha un sorriso così rassicurante. Mi piacerebbe confidarmi con lui, abbandonare la mia testa sulla sua spalla, sentire le sue braccie forti sul mio corpo e poi magari piangere. Ma devo fare attenzione, sempre sbirro è! Non vorrei che mi scappasse qualche parola di troppo.
«No, commissario, Gaetano nemici non ne ha».
«E ha fatto qualche sgarbo? Chessò femmine, licenze edilizie, appalti?».
«Commissario, lei lo capisce che le mogli sono le ultime a sapere quaccheccosa. Ma Gaetano è un tipo tranquillo; anche se l’ultimo incarico che gli hanno dato, capo dell’ufficio tecnico del Comune, posto caldo, tutte quelle licenze edilizie, i condoni… Ma lui non mi è mai sembrato preoccupato; è un uomo buono, non dice mai di no, e se arriva una lettera anonima lui la butta via senza neanche leggerla. Di fimmine non ne ho mai sentito l’odore. Certo negli ultimi mesi nel letto non ci veniva più neanche per dormire».
Alzo lo sguardo e mi pento subito di quest’ultima confidenza, ma ormai le parole mi sono uscite e non posso più rincorrerle per acchiapparle; sono rotolate nella stanza e hanno preso la via delle finestre; domani i paesani, nei bar e nei circoli, a mezza voce, si racconteranno che Anciluzza, la moglie di quel cornuto dell’ingegnere capo, è sola da mesi e ha bisogno di consolazione.
«E poi, commissario…».
«Bruno, mi chiamo Bruno», mi dice con calma.
«Bruno, io di licenze, appalti, fogne e tubature non capisco niente. Il consiglio comunale è stato sciolto per mafia, e questa non è una notizia riservata; mio marito svolge un ruolo difficile e delicato, con tutti gli abusi edilizi che ci sono stati. Ma questo l’ho letto sul giornale, perché Gaetano non mi hai mai fatto capire niente. A lui ci hanno sempre voluto bene. Insomma, commissario…».
«Bruno!».
«Bruno, non lo so che è successo, ma mio marito non si trova più, e io non so se voglio che me lo trovate; perché se ha fatto sgarbi mi riportate un morto, se ha una fimmina lo devo ammazzare io, perciò, commissario…».
«Bruno, porca la miseria!».
«Bruno, pigliàtelo come a uno sfogo, un bisogno che ho di parlare con qualcuno; fate quello che volete, cercatelo, trovatelo, ma non mi dite più niente, tanto per me da oggi è morto comunque. E poi, commissario, ma a lei che ci interessa di essere chiamato per nome?».
Mi alzo dalla sedia per andarmene, stanca come dopo un parto lungo e difficile, anche lui scatta in piedi e mi accompagna fino alla strada; ha uno sguardo interrogativo, curioso, chissà quali idee s’è fatto di me, della mia famiglia; forse sa pure quaccheccosa che non mi vuole dire. Ma io sono quasi sicura che Gaetano, stanco della solita vita, se n’è semplicemente andato, e mi vergogno di essere una moglie abbandonata; chessò, preferirei essere una vedova, magari una vittima delle circostanze, certamente non avrei avuto tutto questo imbarazzo.
Saluto il commissario, lui mi prende la mano umida e se la tiene tra le sue per un poco di tempo. Quella stretta calda e forte mi rassicura, sollevo lo sguardo che tengo basso per abitudine, mi hanno insegnato che i maschi non si possono taliare dritto in faccia; è come quando hai davanti un cane rabbioso che ti mostra i denti, se non vuoi essere mozzicata devi tenere gli occhi a terra e starti ferma. Lo sguardo di Bruno è un fuoco che brucia senza fare rumore, i denti bianchi, la bocca stirata in un sorriso dolce e pieno di comprensione. Un’onda calda mi sale lungo il corpo. La tensione che fino a ora mi ha tenuta in piedi si scioglie, le gambe si ammorbidiscono, uno strano languore riempie il mio stomaco. Sarà colpa della sfincia? Ringrazio comunque per l’assistenza e le attenzioni ricevute. I miei occhi incontrano quelli del commissario. Restiamo a fissarci per pochi secondi. Poi lui si porta una mano al petto e sul suo viso leggo amicizia, riservatezza, solidarietà e… No, è troppo imbarazzante, non lo voglio dire. Scappo via, confusa per tutto quello che mi sta succedendo, ma anche e soprattutto per come lui mi sta fissando.

Tratto dal romanzo di Giuseppina Torregrossa, L’assaggiatrice, Rubbettino